«I sogni sono la letteratura del sonno. Anche i più strani coinvolgono dei ricordi. Il migliore di un sogno evapora il mattino. Rimane...il fantasma di una peripezia, il ricordo di un ricordo, l'ombra di un' ombra.» (Jean Cocteau)

Quando ci si immerge nel cinema di Bertrand Mandico è un dolce inabissarsi, uno smarrimento ipnagogico che precede la catarsi nella vertigine onirica; si apre il velluto purpureo del sipario e il palco si anima di creature fantastiche, ibridazioni fantasmagoriche, piante carnificate e fiori eroticamente sensuali, il maschile e il femminile uniti in un unico genere, dove il corpo anelante è l’unico protagonista.

Ci sono autori che si addentrano in territori inesplorati rischiando di smarrirsi, o rincorrono proprio l’idea di perdersi, in quei luoghi ignoti; poi ce ne sono altri che invece coltivano quegli spazi resi noti, scoprendone nuovi angoli e lasciando che l’occhio si addentri in terre già campo di scoperte, muovendosi su piani paralleli, in universi onirici, dando spazio e corpo al sogno. Ai secondi è riconosciuta la capacità di allargare lo spettro visivo, di ridefinire la bordatura dello sguardo, ampliando i confini del già visto. Il tessuto visivo non sempre è quello che si presenta all’occhio; bisogna guardare oltre, cercare negli spazi più nascosti al bulbo oculare, negli angoli scuri, in quelle sezioni che scivolano tra visibile e (in)visibile. Nella figurazione filmica del mostrare e, al contempo, del guardare, non tutto appare nelle immagini, ma a volte è necessaria un’alterazione della percezione visiva. La variazione va ricercata nel sottotesto, tra i fili della trama, tra i simboli nascosti, perché la visione fantasmica è una scrittura stratificata di immagini sovraimpresse, tra le quali si nascondono creature fantastiche e mondi immaginifici. Bertrand Mandico riesce, attraverso la sua poetica filmica, a dar vita a un linguaggio del tutto inedito e originale, in cui confluiscono musica, letteratura, poesia e un immaginario filmico frutto dell’amore del regista per la dialettica di Vigo, Fassbinder, Cocteau, Anger e Carmelo Bene, e ancora Walerian Borowczyk, Shūji Terayama, Kōji Wakamatsu, Jean Genet, Josef von Sternberg, fino a Mario Bava, Segio Martino e agli altri esponenti del cinema di genere italiano, suggestioni cinematografiche che alimentano la fervida mente del regista francese, raccogliendo l’insegnamento deleuziano:

«l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini che converte in potenza quel che era soltanto possibilità».

Non è la trama a rivestire importanza, ma la sua funzionalità interpretativa dei simboli e delle allegorie; il tessuto metaforico è parte fondamentale della lingua filmica adottata da Mandico nei suoi lavori. Il notturno è espanso e dilatato, penetra negli interni, come spazia negli esterni, il mondo onirico è parte integrante dell’immaginario portato in scena dal regista, grazie all’uso del colore e della luce, caleidoscopiche effervescenze visive danno vita a un fantastico palpitante e pregno di erotismo. Ciò che si vede è forse solo il fantasma della realtà, una traslazione metaforica e desiderante del reale; la figura ectoplasmatica è la trasposizione dell’anima che vomita domande cui non si trovano risposte, “un’attitudine intenzionale della coscienza tesa a confrontarsi con una cosa in quanto immagine”.

La ricerca non è tanto mirata sulla conoscenza di un altrove, ma è un’indagine sull’identità del corpo desiderante di mutarsi in altro, la materializzazione del desiderio è il desiderio del proibito, è l’illusione dell’occhio che imprime sulla retina ciò che desidera: essere altro, avere finalmente una forma, essere corporea, ma senza limiti, per sfuggire dallo stesso involucro carnificato e deragliare in una commistione di sessi, generi e unirsi alla natura che lo circonda. E il desiderio proibito risiede proprio nell’osservarsi e nell’essere osservato: “L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede “l’altra faccia” della sua potenza visiva”. Tutto è carne nel cinema del regista francese, nella saturazione dei colori, così vivida e materica, sfumature cupe e profonde come sangue rappreso, come appare, ad esempio, in Prehistoric Cabaret, ma allo stesso tempo nel bianco e nero, liquido, lattescente di fluidità umorali e secrezioni corporee, sensuale e caldo nelle sue declinazioni, tra i grigi e i candidi bianchi, come nel corto Il dit qu’il est mort. Mandico impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi. Sovente la luce inonda la scena, una luce fredda, abbacinante, in cui vita e morte si fronteggiano e qualcosa di sinistro si nasconde. Già nei suoi corti il regista spiega la sua poetica filmica, la mutazione dal sapore cronenberghiano si fa panica in Notre-Dame Des Hormones, corto del 2015,  coinvolgendo pienamente la natura, quella più selvaggia e chimerica, la vegetazione panerotica, ricorrente nella poetica del regista, e “qualcosa”, chiamata, non a caso, the thing, racchiude la duplicità iconica dell’immaginario del regista francese; pene e vagina in un unico organismo, vegetale e animale: è la metafora dell’inconsistenza della diversità dei generi, dei sessi, della mutazione dell’uno nell’altro in un onirico crepuscolare dove il desiderio è l’unica condizione possibile in una natura totalmente ormonale. Attraverso un erotismo surreale e visionario, in cui la demarcazione tra i generi non è mai troppo netta, dando spazio a ossessioni e perversioni, fedele alla lezione del regista polacco Walerian Borowczyk - cui ha dedicato anche un suo lavoro, Boro in the box - Mandico libera il corpo dal suo stesso involucro, privo di qualsiasi costrizione e limite. Nelle sue opere i due sessi sono spesso destinati, non solo a incontrarsi, ma anche a scambiarsi, fondendosi l’uno nell’altra, e il femmineo placa tempeste e dissolve ogni furore dell'agone marziale. Esattamente come accade nel suo primo lungometraggio, Les garçons sauvages.

Il sesso è quel magma incandescente che arde bruciando la pellicola, corpo infiammabile, come è il cinema di Mandico; viene portato in scena il corpo, nelle sue pieghe più recondite, oscenamente mostrato, esposto, assaporato e violato, come la mdp che in Prehistoric Cabaret esplora fisicamente le viscere di una ballerina per uscire poi dalla sua bocca, contorcendosi sulla lingua. L’universo notturno mandichiano si accende di sfumature crepuscolari in un’ode agli anni ’80, in Ultra Pulpe, opera metafilmica, parte del progetto corale Ultra rêve, del 2018, tre cortometraggi firmati, inoltre, da Yann Gonzalez e dalla coppia Poggi e Vinel. Sospesi in nebulose di colore, tra tonalità crepuscolari, dai blu notturni, ai viola talmente princeosi, che sembra strano che in sottofondo non scivoli la ritmica martellante di When Doves Cry, o forse c’è, echeggiano richiami al cinema italiano di genere, sia nella scelta della mise en scene, che nell’omaggio esplicito a due grandi come Joe D'Amato e Roberto Raviola, in arte Magnus, al suo Necron e alla sua eroina, sadica e ninfomane, Frieda Boher.

Musica, letteratura, poesia, fumetto: tutto confluisce nel fluido visivo del lessico cinematografico di Mandico, tutto in un equilibrio perfetto, tutto chimicamente assemblato in una mistura lisergica che strega ed affascina, creando dipendenza, qualcosa che, una volta assaporato, non si dimentica e di cui non si può più fare a meno. Il regista francese, come pochi altri, riesce nel non facile compito di spingere l’occhio oltre la barricata causando la deflagrazione di regole e schematismi preesistenti, ma è funzionale a creare linee alternative di espressione e linguistiche differenti, perché lo sguardo esige nuovi spazi visivi.

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