«Su di noi
il tempo ha già giocato, ha già scherzato
ora non rimane che
trovar la verità […]».

Parla piano, Vinicio Capossela

Quello che sappiamo del nostro vissuto, riconoscendolo in ultima istanza come tale, è prevalentemente un’impronta perdurata dall’esperienza del passato. Arresa dell’essere e della coscienza al tempo, il quale si fa crogiolo di tracce, segni, immagini assimilate dal mondo e riproposte in una diacronia imperfetta fatta di momenti sempre nuovi e, allo stesso tempo, già vissuti. O ricordati, per l’appunto, trascinati al presente in nuove potenziali versioni di loro stessi; richiamati alla memoria in modo “circolare” nel tentativo di decifrare – come farebbe un occhio fotografico che tenti la messa a fuoco – l’immagine sfuggente che si è frapposta tra la cosa e la sua passata percezione. La prima ricerca umana possibile è, dunque, quella che scava nei ricordi. Di un soggetto sempre più esitante rispetto al reale, così condotto all’indagine mnemonica e alla sfida del riconoscimento dell’oggetto in una sorta di “passato-presente”.

Quando Valerio Mieli compone l’intricata architettura di Ricordi? (2018) ha la consapevolezza che entrare nello spazio della memoria del soggetto sia un’audace prova d’esame con l’interiorità tout court; che la linearità cronologica – così ben rappresentata nel film-romanzo d’esordio, Dieci inverni (2009) – sia presto sostituita da lampi abbacinanti, salti tra livelli ontologicamente differenti eppure appartenenti alla stessa realtà. Cosicché l’incipit di questo suo secondo lungometraggio è già un’immagine alle soglie dell’onirico, perché il ricordo puro – come il sogno, al limite come il cinema – è espressione di un frammento di tempo pulsante dissociato dall’agire, intriso di interiorità sì, eppure già così impresso dal/del mondo, in quel rapporto di imprescindibile comunione che è, in prima istanza, quella dei passati con il nuovo presente, ma anche del reale con l’immaginario, del visibile con il non-visibile.

Mieli, alla luce di questo, costruisce una sorta di “casa dei ricordi”, ove il tempo non scorre ma si riavvolge su di sé per reinventare nuovi corsi e percorsi nell’attesa del futuro; e non sarà più – riduttivamente – l’interiorità dei protagonisti a prendere la scena dominando l’immagine, bensì il tempo puro a liberarsi in modo diretto, rivelandosi infine come lo spazio intimo preesistente che i soggetti abitano e sentono dappertutto sulla loro pelle.
Ricordi? si presenta fin da subito come uno strano, affascinante oggetto a più voci e punti di vista: Lui abita uno spazio mnemonico color blu notte di intonazione malinconica e, spesse volte, minacciosa; Lei è al centro di una dimensione vivacemente variopinta, colma di rossi e gialli, “arredata” di cose semplici e luminose. Non c’è, invece, tra loro lo spazio dell’identificazione – Lui e Lei resteranno personaggi “senza nome”, di nuovo alla stregua della dimensione onirica – , a sottolineare esplicitamente l’universalità del meccanismo dei ricordi e ancor più del tempo del sentimento, scollato da fatti e termini definiti e rifornito da una detonante natura d’evento contingente.

Lui (Luca Marinelli) e Lei (Linda Caridi) non fanno che “ricordare”: con gli amici, tra di loro, per se stessi, consapevolmente o travolti da fugaci flash temporali. E anche quando lo spettatore pensi di aver trovato la coda terminale di questa mise en abyme della memoria amorosa, finisce tristemente ingannato dalle immagini, dai punti di vista che abbelliscono o deformano figure e situazioni, persino dalla grana più o meno pellicolosa di ciò che vediamo sullo schermo. Il cinema diventa, dunque, la dimensione estetica che parla il linguaggio ingannevole del tempo (il ricordo mente o le cose erano già belle nel loro durante?); che traduce in grammatica del vedere un vissuto altrimenti inesprimibile il quale è, in primo luogo, quello d’amore.
Mieli si fa carico qui, coraggiosamente, di uno sguardo cinematografico “romanzesco”, forma unica in grado di gettarsi tra i corpi-forze degli innamorati; tra i deliri delle loro immagini senza contorni destrutturando la narrazione tradizionale; tra gli imprevisti irriducibili del reale vissuto con il corpo e il cuore. Senza mai cadere, peraltro, nella trappola dell’eccesso sentimentalistico né della banalità melodrammatica. Ma facendo in modo che sia solo la macchina da presa a costruire da sé – con l’ausilio di una fotografia considerevolmente espressiva – il tessuto sensoriale puro, intimo, di Lui/Lei e delle cose del loro/nostro mondo. L’immagine dell’amore – e del tempo presente – si configura presto come un punto interrogativo sulla verità: perché Lui mente a Lei nel momento della rimembranza delle reciproche relazioni passate omettendo un amore – forse – soltanto immaginato; perché il trauma della piscina che si colora di rosso non è che un “falso-ricordo” mai veramente accaduto al Lui bambino; perché l’immagine è frequentemente avvolta da una finta neve – un ricordo resnaisiano meraviglioso – , significando desiderio di staticità delle cose della vita, alla pari delle statue tra la nebbia o in casa del padre-scultore di Lei; come il cane congelato nel freezer per paura che il corpo marcisca: «Magari fra un po’ non si morirà più e avremo tutto il tempo per ricordare».

Tutto quel passato così inutilizzabile allo stato attuale continua a prolungarsi nel loro presente e simultaneamente a cambiare le sue sembianze, a mettersi in movimento e a esistere come e più di allora. Il passato è – per Lui/Lei e per questo cinema che guarda all’immagine della grande “modernità” – una vera essenza preesistente, vecchia ed eterna, riattraversata a più riprese in ciascuna delle sue falde; una nuova falsa verità che ha determinato un cinema in grado di superare il regime narrativo, sposando la veggenza – Lui e Lei distesi in terra a guardare il vuoto o a errare in solitaria per strade desertiche. Sposando soprattutto il montaggio fratturato e incompleto dell’interiorità – a opera di Desideria Rayner – in luogo della causalità ideale di fatti esterni. Per un cinema sognante e che fa sognare, che riporta lo spettatore indietro nel suo tempo, a confondere immagini sue e di altri, dei personaggi, dell’autore – la casa soppalcata riprodotta su modello della casa d’infanzia di Mieli – , del vero e del falso: avendo, infine, superato anche la differenziazione tra soggetto e oggetto, in un poetico anarchismo della lingua-cinema che balbetta, si inceppa a furia di memoria, sbaglia ma pur sempre in ragione della sua nuova verità.

Nella mappatura di ricordi del film, tra gli intervalli d’amore privi di centri motori, il regista punta l’attenzione sulla materialità di luoghi e corpi, agganci per la memoria e il riavvolgersi del tempo. Nella casa presa in affitto – quasi una nuova versione del nido d’amore veneziano di Dieci inverni – i ricordi di entrambi trascolorano: le immagini collezionate nel tempo della loro relazione vissuta in quel luogo saturano la mente, confondendo presto gioie e dolori. La casa diventa, dunque, la memoria stessa della coppia, immagine attuale e ingombrante di un passato finito e pur tuttavia presente.
La stessa concretizzazione del ricordo passa poi per i corpi: Lui e Lei mangiano sushi immersi nella vasca da bagno, disseminano di tracce private i pavimenti, il letto, le pareti, replicando forse la storia virtuale di altri soggetti già passati per quegli spazi. Il corpo è, dunque, la prima e ultima traccia del tempo, inciso a forza dal suo vissuto, tormentato da sapori e odori, alterato da felicità e patimenti. In ultimo, riformulato dall’incontro che lo ripiomba nel reale – il finale ambientato in una riconoscibile San Lorenzo notturna – , lo catapulta a piacimento nell’evento imprevisto, richiamando in causa tutti i passati e i presenti possibili. E così, è già il futuro.


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