All'interno di quel corpo di film tenuti insieme dall'emergere, dal delinearsi, anche dall'evaporare di una poetica del sogno – quello che io chiamo cinema-rêve o dream cinema –, che va dall'inizio degli anni Dieci (dall'Âge atomique di Héléna Klotz) e arriva a Jessica Forever di Poggi e Vinel (e alle Bêtes Blonde di Matray e Walther), se Mandico rappresenta il delirio, cioè il grado massimo di onirismo (soprattutto in Ultra pulpe), con inferenze di grottesco e sadismo, Poggi e Vinel sul versante opposto sembrano perseguire una dimensione incerta, transeunte, di quasi-sogno, in cui vige un'alta emotività di tipo adolescenziale che caratterizza i protagonisti.

E ciò già nei loro corti, i cui fremiti poi si dilatano nello straordinario episodio di apertura di Ultra rêve (film-manifesto firmato Poggi e Vinel, Gonzalez, Mandico), After School Knife Fight, che mostra una giovinezza dolente, introversa, autolesionistica, la cui realtà fatta di stanze, pomeriggi, radure aperte tra i boschi è già come ricordata, e sfuma in un fantasmatico avvenire di separazioni, mancanze, come amputazioni, tagli sulla carne: il sangue è il referto, il segno oggettivo di una solitudine senza rimedio. E ciò tanto più in Jessica Forever: fuoriesce dai tagli di vetri rotti, delle lame; trasuda dalla pelle, dai dorsi atletici dei ragazzi, in quanto segno fisico di un male interiore, un'emotività insostenibile, straripante, come la si avverte in quell'età di passaggio che è l'adolescenza. Tutto il film allora è una metafora di questa età in cui ogni cosa è amplificata: variazione fantascientifica (in senso distopico), laconica e commovente sull'età scolastica; trasposizione di un vagare nel deserto della scuola in cui si incontra un'insegnante a cui affidarsi, e poi, inatteso, l'amore, intenso, così libero di incunearsi tra le gambe studentesche; delle feste dove si è estranei, presi in giro, e si reagisce con violenza; delle spiagge, dopo-scuola, in cui ammirare da lontano un corpo, come un miraggio, un fantasma che vive in apnea, nell'apnea del film innanzitutto, dell'immaginazione in cui le cose levitano, luccicano.

La guerra è a scuola: quello stare con gli altri infuso d'attrito, ostilità, e d'un'inerzia che ora tiene tutti i corpi di questi orfani anomali, x-men dolenti, introversi; l'avvicinarsi silenzioso all'altro su cui incombe il pericolo della perdita, della mancanza insoffribile come accadeva in After School Knife Fight; ed è qui, a scuola, che avviene la battaglia finale, con lo sciame di droni che punteggia l'orizzonte, per mettere fine a questo abominio che sono gli orfani senzienti, derelitti, suicidi. Jessica è la messa in scena, tra mimesi e fantastico, della desolazione di una minoranza sensibile, che non riesce a far fronte alla propria straripante emotività e deve resistere di fronte a un ordine delle cose refrattario, ottuso, tanto più insostenibile in quanto frutto di una percezione elevata a potenza, un'appercezione che fa sentire il peso abumano del mondo, a cui del resto non oppone una propria presunta purezza sacrificale, ma la violenza, il delitto, la reazione nervosa, appunto emotiva. I senzienti uccidono, rubano, si tagliano, come inferenza del loro attonito, insostenibile sentire; sono la testimonianza di un grumo profondo, torbido che è l'essere, come delicati fiori del male che non smettono di esalare il loro malsano e sublime conato sul mondo, di cui vorrebbero essere parte, tant'è che ne accolgono (con un atteggiamento che è di vero e proprio feticismo) gli elementi più appariscenti, le cose del capitale: merendine in confezioni variopinte, scrocchianti; motociclette, oggetti scintillanti, plastificati, che testimoniano di un'opulenza sognata da bambini, che è l'opulenza del nido in cui cercare di arginare il dolore.

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