Corpo totemico dell'instabile universo pan-sessuale genito da Bertrand Mandico è l'immancabile Elina Löwensohn, Valentina, Barbarella dei tempi nostri, che con la sua presenza fisica attraversa tutto l'universo mandichiano conferendogli con la carne reale una sorta di continuità ontologica sul piano immaginativo, avvertibile al di là delle diverse identità sceniche che assume.

Si tratta di quel tipo di continuità ontologiche che hanno oggi i prodotti seriali, o i fumetti, e che un tempo avevano le grandi narrazioni epiche, mondi diegetici la cui continuità d'esistenza si costruisce attorno alla presenza ritornante dello steso gruppo di protagonisti, eroi o dei.
E la Löwensohn ritorna, come una rassicurante certezza, ritorna, pur nei ruoli più disparati, di madre violentata, fotografa di cadaveri, esploratrice-scienziata delle mutazioni sessuali, attrice sessodipendente, sciamana, Elina rende coerenti e in qualche modo esistenti i molti ultra mondi che Mandico mette in scena, alla maniera di eroine di carta come la Valentina di Crepax e forse, in maniera ancora più diretta, e pensata dal cinefilo che è in Mandico, alla maniera delle eroine dei primi serial americani degli anni '10, La Kathlyn (Kathlyn Williams) di The adventures of  Kathlyn (Francis J. Grandon, 1913-'14) o La Pauline di The perils of Pauline (Louis J. Gasnier, Donald MacKenzie, 1914) interpretata dalla candida Pearl White. Mondi discontinui e occasionali, luoghi esotici e paradossali, che trovavano però nella percezione spettatoriale una consistenza di realtà e una coerenza solo in quanto temporaneamente abitati dall'eroina di turno, teatri delle sue dis-avventure inconsistenti al di fuori di esse.

In questo corto visionario Elina interpreta Joy D'Amato, regista, dalla imperiosa carica sessuale e incarnazione femminile del prototipo del regista-divo degli eccessi, alla Stroheim per capirci, dalla personalità vampiresca e incline alle struggenti e innominabili passioni. Joy, ovviamente, fa da snodo a due livelli di incorporazione del discorso metacinematografico che interessa Bertrand, coalescenti, ma diversificabili. Nel suo ruolo di regista, ovviamente, agisce come retroproiezione di Mandico, ne media le ossessioni cinematografiche e ne incorpora l'idea di cinema a livello teorico e teoretico, mentre su un piano dell'incarnazione cinefilica più passionale esprime, inscritto nel patronimico non casuale, l'amore di Mandico per il cinema del regista di Porno Holocaust (1981) ed Emanuelle Nera (1975). D'altro canto il cinema exploitativo di di Joe D'amato, come di Deodato, Fulci &C, ben al di là delle citazioni esplicite (Emanuelle e gli ultimi Cannibali), sembra aleggiare come un'aria malsana, un miasma, che impregna di un sentore vago i modi della messa in scena e della recitazione, generando un'atmosfera generale da B-movie dall'estetica vintage con forti ammicamenti sex&violence. Dei molti ruoli che questa attrice feticcio ha ricoperto, tutti funzionali all'esplicitazione di aspetti concettuali e morali della weltanshauung mandichiana, questo, senz'ombra di dubbio, è quello più immediatamente autobiografico, che incorpora in maniera più cristallina le credenze, le paure, le ossessioni di Bertrand Mandico. Più che di una proiezione, forse, dovremmo parlare di un vero e proprio alter ego di Bertrand, regista come lui, con le stesse ossessioni, che però, per una sorte simile a quella dei suoi ragazzi selvaggi, ne inverte la polarità di genere sessuale, lo femminizza. 

Attraverso Joy D'Amato Mandico apre il cuore al suo pubblico e dichiara le proprie passioni tanto quanto la propria filosofia in fatto di cinema, senza più utilizzare lo schermo dei personaggi, che, in opere precedenti, veicolavano queste sue convinzioni in maniera mediata, attraverso l'esercizio di funzioni diverse da quelle direttamente registiche o cinematografiche, come la fotografa di corpi morti che li rianimava a passo 1, o Boro, il personaggio dal corpo a forma di macchina da presa (camera obscura, ad essere precisi), o la Maitresse, metafora dell'istanza registica, che in Prehistoric Cabaret guida gli spettatori in un viaggio immaginifico e corporeo attraverso l'uso di una telecamera-sonda anale. Joy è regista e come tale incarna tutte le manie e le tensioni del Bertrand regista, a cominciare dal suo rapporto cannibalico con le attrici, deificate da quella sorta di transustanziazione con cui il cinema, il regista, le eleva al rango di semidee, ma al tempo stesso vampirizzate, depredate sino all'esaurimento d'ogni residua energia dal suo amore esigente ed onnipossessivo. Un'amante terrorizzato dall'abbandono, il regista che teme il distacco dalla propria opera, l'abbandono del set, la fine della finzione. Apocalypse protagonista dell'ultimo film di Joy-Bertrand, sua ultima dea, a fine riprese cerca di liberarsi di lei, come ogni film del proprio regista, (l'opera che per legge naturale una volta matura abbandona il proprio creatore per donarsi al pubblico) e Joy non lo può sopportare e cerca di procrastinare ancora quell'amore instabile.

Joy-Bertrand, l'istanza registica desiderante, tenta di trattenere a se la giovane, e come estrema ratio seduttiva, adotta l'affabulazione, la malia fascinosa della parola e del racconto «Abbandonati Apocalypse, lasciati guidare dalle mie parole», dice Joy (Bertrand), in un invito alla croyance che è quello del cinema, del regista, al suo pubblico, cui sempre si chiede un atto di fede. Mentitrice e incantatora come ogni regista, come Betrand Mandico, Joy inizia a raccontare le sue visioni, le trame fascinose dei suoi film, i set passati, quelli futuri e quelli solo sognati traghettando la visione su mondi alieni che seducono lo spettatore, l'attrice ed ovviamente Bertand Mandico, presenza spiritica soggiacente a questa dichiarazione d'amore cinefilico per l'arte dello story-telling e dell'invenzione fantastica sempre diversa. Ma gli universi di Mandico, si sa, sono permeabili al rovesciamento reciproco dei fluidi, instabili di continua mutazione tra opposti, lo era la sessualità mutante e mutabile in Les Garcons Sauvages, lo sono qui la relazione e la distinzione tra realtà e finzione. Il Racconto di Joy D'Amato ci porta su ultramondi diversi di set in set alternandosi (o fose no) a momenti in cui si presume che i personaggi agiscano nella realtà (quella diegetica, ovviamente), ma la regia spariglia le carte e sceglie di non adottare espediente stilistico alcuno per segnalare il passaggio da un set alla realtà a un altro set ancora. Ecco che lo statuto delle situazioni diventa incerto, mai sicuramente determinabile, i cambi di scena depistano, rivelano per fittizio, recita di set, ciò che si era creduto vero e viceversa, in una reversibilità continua e fluida, priva di quelle cesure e rigide divisioni interne che la razionalità impone. Realtà e simulazione, mondo e cinema, oggettività e finzione, tutto s'impasta e come per molecolare coalescenza s'addensa in quel composto mononucleare inscindibile che è l'ultramondo immaginato da Mandico, in cui si celebra l'arte più fina della finzione indistinguibile dal mondo vero: il cinema.

E Joy D'Amato innanzitutto proprio questa natura finzionale della settima arte incarna. Di set in set il film trascina lo spettatore attraverso una galleria caleidoscopica e difforme di mondi altri, alieni e dichiaratamente artificiali nell'ostentare la propria posticcia fattura, mondi esteticamente perfetti, bellissimi quanto innaturali, maniacalmente curati dal Mandico metteur en scène affetto da una ipertrofia da decòr scenico. È una celebrazione del cinema come sogno, come fonte di bellezza e impareggiabile fascinazione, è l'apoteosi del cinema come arte dell'invenzione fantastica, della bellissima bugia che non si distingue dalla verità, ma è anche la santificazione del cinema in quanto passione, desiderio divorante, pulsione che, nelle mani di Mandico, si vira in brama oscena, carnale, sudata, traboccante fluidi e umori. Il fatto che Joy viva la relazione cinematografica come brama sessuale è in realtà solo l'ennesima manifestazione di un più generale discorso sulla sessualizzazione del cinema che informa la poetica di Mandico nelle sue fondamenta e che già aveva trovato corpo (e corpi sudati) in opere precedenti. Cinema-desiderio, cinema-sesso, che, sul piano del visivo, epifanizza questa dimensione desiderante nella mostrazione feticistica di un repertorio di oggetti tecnologici cinematografici, soprattutto la macchina da presa, in versioni genitalizzate, meticci bio-meccanici per la ripresa di immagini con forma e funzione sessuale, come la liana-telecamera-pene di Prehistoric Cabaret, la macchina da presa biomorfa con cui amoreggia il protagonista di Boro in the Box e il suo stesso corpo a forma di camera obscura, che costituisce di per sé un primordiale e ineliminabile richiamo ai processi di formazione e proiezione dell'immagine.

Una dimensione sessuata e oggettuale del cinema che si ritrova nelle telecamere biomorfe e dai microfoni falliformi che usa l'operatrice di Joy D'Amato, strumenti dal design che pare più atto al “penetrare” fallicamente la realtà, che non a ricevere suoni e immagini, in modalità vaginale. Sono, queste, metaforizzazioni visualizzate del desiderio impellente del cineasta, dell'identificazione che sente col mezzo che sconfina patologicamente nel bisogno di compenetrazione fisica col dispositivo tecnologico, la chimera di una identificazione totale, sotto le quali possiamo intravvedere l'ombra di una icona generatrice di sensi tra le più celebri della storia del cinema, il Kinoglaz, l'immagine del cine-occhio generata dal genio visionario di Vertov, in L'uomo Con La Macchina Da Presa, del '29, madre di tutti i meticciamenti uomo-cinema, ed espressione di una impellenza non diversa da quella che mette in scena Mandico. C'è poi da considerare la lunga scena in cui una delle attrici, sotto la direzione di Joy-Mandico, si dedica a un amplesso con una macchina da presa, che rimanda direttamente a quella del tutto simile presente in Boro In The Box. La macchina da presa, il cinema, che diventa oggetto sessuale esplicito, osceno «Devi accentuare la volgarità, Ulli, mia cara» comanda Joy alla giovane attrice che si stava sitrizzando i capezzoli strusciandoli contro la macchina mentre premeva in fuori il culo, per accentuarne la rotondità. Un cinema B-movie sin nel midollo, che ama insozzarsi, a differenza di quello nettato e frigido, ma colto, che una certa idea accademica di autorialità pretenderebbe.

Qui le manifestazioni feticistiche si sprecano, a cominciare dal sovradimensionatissimo obiettivo montato sulla macchina da presa, evidentemente spropositato per il tipo di riprese in interno che devono essere effettuate e  di chiaro richiamo fallico, per continuare con il dettaglio cinefilissimo delle vistose bobine Panavision, godimento puro per onanisti da tecnologia cinematografica vintage. E certo non è per un caso che a dirigere questo amplesso ci sia la carismatica Joy D'Amato, ovvero Mandico, l'incarnazione del regista, che irreggimenta e cagiona l'amplesso dell'attore col film, lo spasmo orgasmico dell'arte, e lo guida nella direzione di un'oscenità crescente, lo spinge alle conseguenze estreme per soddisfare onanisticamente il proprio godimento di cinema. «Fammi vedere il più possibile», incita la regista despota mentre l'attrice si contorce a ridosso del corpo-fallo della macchina da presa (e in un invito all'onniveggenza che sembra rivolto da Mandico innanzitutto al proprio cinema): «Voglio che i cuori degli spettatori si rivoltino nelle loro casse toraciche». Un'invocazione che in fondo snuda la verità di un Mandico-bambino, romantico e idealista, che in tutta purezza ancora fermamente crede all'idea di un cinema in grado di cagionare sentimenti veri e veri sconvolgimenti, un cinema potente ed emozionale, un cinema che rivolta i cuori. Joy, in fondo, è la parte migliore di Mandico che si mette in scena in un gioco all'autorappresentazione che richiama più le dinamiche non innocenti sottese all'idea del selfie, che non quelle narcisistiche e non strutturate che rimandano allo specchio, come dimostra il fatto che in questo suo rappresentarsi Mandico mandi in scena la sua parte femminile, incarnata dalla Löwensohn. Ancora una volta il corpo di Elina al centro dell'ultramondo di Mandico.


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