risultati per tag: Carlo Hintermann

  • «La Nature est un temple où de vivants piliers
    Laissent parfois sortir de confuses paroles;
    L'homme y passe à travers des forêts de symboles
    Qui l'observent avec des regards familiers.

    Comme de longs échos qui de loin se confondent
    Dans une ténébreuse et profonde unité,
    Vaste comme la nuit et comme la clarté,
    Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

    II est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
    Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
    — Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,

    Ayant l'expansion des choses infinies,
    Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
    Qui chantent les transports de l'esprit et des sens».

    (C. Baudelaire, Correspondances)


    «Dall’altra parte delle acque scure», stando all’epilogo del precedente film di Hintermann su Terrence Malick, Rosy- Fingered Dawn, c’è tutta una teoresi sulla materia cinematografica, sul suo portato di luce, di ombre attraversate dalla luce: rimandare al doppio aurorale, alla sintesi, in un momento, del dì nella notte, si connota oggi, pensando al più recente The Book of Visiondi cui lo stesso Malick è produttore, in un periodo storico quanto mai determinato dal criterio dell’assolutizzazione dei punti di vista (dell’intransigenza del proprio modo di vedere le cose senza apertura alcuna al confronto), si caratterizza proprio come idea creante, spazio cinetico, estetico, di attuazione di un progetto, che è prospettiva, visione, rêverie di un mondo possibile. Così il dualismo tra orizzonte del «visibile» e del «visto» (Roberto De Gaetano, Il visibile cinematografico) è trasposto da Hintermann dal campo più propriamente percettivo a quello teorico, filosofico, toccando per certi versi degli aspetti focali, attuali, sui quali si ritiene debba concentrarsi l’interesse della critica.

  • A chiudere l’anno, aspettando Tarkovskij, il primo affresco del “Dittico dei lirici” è di Carlo Hintermann, codiretto con Luciano Barcaroli, Gerardo Panichi e Daniele Villa:Rosy- Fingered Dawn

    Torniamo all’epiteto omerico, soglia fra luce e buio, dì e notte, che è «Aurora dalle dita di rosa», quell’intrico di strade, asfalto contrapposto al cielo, auto sparse nella pioggia, battente sui vetri che sibilano al graffio dei tergicristalli, mentre cadono i titoli di testa sul campo mosso; interferenze, intermittenze, fari sfatti dalle sirene, dalle voci rotte dalla radio sui profili scuri. Terence Malick, la luce del riversarsi rosso aurorale da un traliccio ad un altro, comparso tratto a tratto mentre l’occhio della macchina da presa viaggia, si dilata nelle distese a perdersi – e voci sempre, fuori campo, didascalie documentano la visione, la poesia della visione– diventa racconto di un inseguire di nuvole, di dettagli d’erba, di pezzi di cielo: cosmogonia cinematografica, ragionare sulla vita e sulla morte prima che una o l’altra arrivino tra gli elmetti nei campi, a colorare fasci di vento nel moto ondoso della natura, nel silenzio intorno. Quel suo modo autentico, intuitivo ed estremamente preciso, di fare cinema, è espresso anaforicamente dalle scene del sole sulle pianure sterminate a inondare «tutta quella violenza» «di tenerezza e amore»: lo stesso Carlo Hintermann ha insistito con noi su questo, sull’idea cioè di Cinema come «acceleratore di particelle», che unisce, mette insieme, espandendo il creato. Ed è questo irrompere dell’inaspettato, forza ellittica, mancante, enigmatica del farsi luce a lasciare qualcosa, sempre, nell’ombra, compresa «la perdita dell’innocenza»: 

    «Se andrò avanti io, ti aspetterò lì, dall’altra parte delle acque scure».

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