A chiudere l’anno, aspettando Tarkovskij, il primo affresco del “Dittico dei lirici” è di Carlo Hintermann, codiretto con Luciano Barcaroli, Gerardo Panichi e Daniele Villa: Rosy- Fingered Dawn

Torniamo all’epiteto omerico, soglia fra luce e buio, dì e notte, che è «Aurora dalle dita di rosa», quell’intrico di strade, asfalto contrapposto al cielo, auto sparse nella pioggia, battente sui vetri che sibilano al graffio dei tergicristalli, mentre cadono i titoli di testa sul campo mosso; interferenze, intermittenze, fari sfatti dalle sirene, dalle voci rotte dalla radio sui profili scuri. Terence Malick, la luce del riversarsi rosso aurorale da un traliccio ad un altro, comparso tratto a tratto mentre l’occhio della macchina da presa viaggia, si dilata nelle distese a perdersi – e voci sempre, fuori campo, didascalie documentano la visione, la poesia della visione– diventa racconto di un inseguire di nuvole, di dettagli d’erba, di pezzi di cielo: cosmogonia cinematografica, ragionare sulla vita e sulla morte prima che una o l’altra arrivino tra gli elmetti nei campi, a colorare fasci di vento nel moto ondoso della natura, nel silenzio intorno. Quel suo modo autentico, intuitivo ed estremamente preciso, di fare cinema, è espresso anaforicamente dalle scene del sole sulle pianure sterminate a inondare «tutta quella violenza» «di tenerezza e amore»: lo stesso Carlo Hintermann ha insistito con noi su questo, sull’idea cioè di Cinema come «acceleratore di particelle», che unisce, mette insieme, espandendo il creato. Ed è questo irrompere dell’inaspettato, forza ellittica, mancante, enigmatica del farsi luce a lasciare qualcosa, sempre, nell’ombra, compresa «la perdita dell’innocenza»: 

«Se andrò avanti io, ti aspetterò lì, dall’altra parte delle acque scure».

Tags: