Totò Che Visse Due Volte, favolaccia delle favolacce, me lo concedano i D’Innocenzo, in tre favolette cupe, i tre capitoli del film, in cui muovono le gesta picaresche dei figli ultimi della Ricotta pasoliniana, i figli ancor più degradati e vilipesi, ed anche favolaccia di novella inquisizione, la storia delle vicissitudini del film e della sua distribuzione, in una Italia da processi alle streghe che danna alla gogna questa pellicola invereconda a partire dal lontano1998, l’anno del suo passaggio veneziano.

La critica si spaccò da subito in due fazioni: gli inorriditi e gli entusiasti. Censure totali, divieti ai minori, invettive, filippiche e rampogne d’ogni sorta, infatti, hanno accompagnato la distribuzione centellinata di questo film sin dal suo primo folgorante apparire sugli schermi. Una damnatio memoriae plebiscitaria (se non si tiene conto del numero risicato di cinefili comunisti mangiabambini che invece da subito lo hanno difeso) che solo nel 2019, con il restauro in 4K promosso dalla cineteca di Bologna sembra aver perso un po’ della propria furia censoria.


Non è infruttuoso, tuttavia, indagare questi “gran rifiuti” sotto il profilo dell’identità sociale dei detrattori, perché molto possono dirci sul film, sul tipo e, soprattutto, sulla misura di profondità degli sguardi che gli sono stati rivolti. Non stupisce affatto ritrovare assisi sugli scranni di questo tribunale del S.S. Uffizio associazioni di cattolicissima impronta come Militia Christi, l’Associazione Famiglia Domani o l’Associazione Nazionale Buon Costume. Non stupisce perché in fondo si parla di un film in cui parimenti ci si inchiappettano somari ed angeli alati del Signore, gallinelle chioccianti e icone sacrate della Vergine Santissima (che tanto più vergini a quel punto non saranno), una favola nera in cui l’onanismo è tic compulsivo e pratica sociale in un mondo che perverte ogni identità di genere per creazione divina assegnataci (tutti maschi, pure di sgradevole aspetto, anche nelle parti femminili). Certo che non stupisce più di tanto, ma al contempo ci rivela una volontà di sguardo del tutto epidermica che non intende andare oltre l’immediatezza del mostrato, e questa è una pratica di lettura chiaramente inadatta al cinema di Maresco e Ciprì, prima e del solo Maresco adoggi, in cui il più delle volte è proprio il portato inferenziale che alligna “dietro” o “sotto” l’immagine a fare la differenza semantica. L’equivoco riguarda innanzitutto l’intentio auctoris, nel momento in cui si ritenga questo un film «[…] che esprime un esplicito atteggiamento di disprezzo verso il sentimento religioso in generale e quello cristiano in particolare, disconoscendo al “sacro” e alle sue componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad esso riconosciute dalla comunità», come si legge al punto C del verbale prodotto dalla Commissione Censura emesso nel ’98.

Il problema, come accennavo poc’anzi, è che questa lettura mette a fuoco le sole immagini, e di queste si limita a considerare solamente il contenuto iconico più immediato, quello che vediamo a un primo sguardo. E allora sì, quello che si vede nel terzo episodio è effettivamente l’Angelo del Signore, peregrino in terra sicula, mostrato dapprima mentre defeca tra gli sterpi colto da orribili spasmi di sciolta, e poi mentre viene ingroppato, faccia al muro, da tre obesi uomini-orco e da un ometto che poco prima si era inculato una gallina e che dopo poco avrebbe ripetuto il gesto con una candida statua della Maria Vergine. Ciò che questo sguardo omette di vedere, però, sono “gli uomini”, Maresco e Ciprì, dietro queste immagini, affatto compiaciuti, lontani da qualsivoglia voluttà exploitativa, che se non propriamente denunciano, quantomeno constatano con infinita amarezza la perdita d’ogni sacralità dell’esistere. Sì, Ciprì e Maresco, che se avessero voluto sprofondarci tra le faglie della libidine, probabilmente, avrebbero adottato un angelo bello, dal culo liscio e sodo, avrebbero ricercato quell’infoiamento ridondante dei bassi sensi che inturgidiva gli pseudo documentari del Mondo Movie anni ’70, invece di gettare ogni cosa in pasto alla più antierotica delle bruttezze. Eh già, sembrano non voler vedere questo dettaglio non da poco, visto che ribalta completamente il senso di questa rappresentazione, gli impavidi crociati della cristiana morale, il fatto che i due registi non ci godono nel vedere il mondo che vedono intorno a loro né si divertono più di tanto nel dovercelo mostrare, anche quando lo deformano e lo portano ad iperbole (e in questo forse recuperando un po’ di divertimento, concediamoglielo), secondo il loro tipico gusto grottesco e contraddittorio. Non c’è il gioco divertito dell’anticristo che gode nello sputare sull’icona sacrata e nel calpestare le croci, no, qui si ravvisa solo il dolore dell’uomo di cultura che dall’angolo recondito d’una radicata morale filantropica piange la latitanza del senso del sacro, o che tutt’al più, obtorto collo, deve accertarne la morte clinica.

A scontentare gli amici partigiani della moralità cristiana, in aggiunta, sembra poi il fatto che la sacralità cui fanno riferimento i nostri non filtra dalle vetrate a piombo delle cattedrali, né si fa scudo dei crocefissi, ma è religio hominis laica, il senso della sacralità dell’uomo nella dimensione orizzontale e paritetica degli uomini, che non viene rilasciata dall’alto di una qualche divina potestà. Un’entità di valore che non saprei tradurre in parole se non come «perdita della cultura», espressione che pure, me ne accorgo io stesso, non ne esaurisce affatto il senso, perché non può essere limitata all’idea dello smarrimento dell’alfabetizzazione, della carenza di nozioni immagazzinabili e di libresca provenienza, ma che investe l’idea di una perdita del senso del valore della vita, della sua morale e dell’etica che dovrebbe conseguirne. Una perdita che lascia l’uomo ignudo di difese, di strumenti per la comprensione, abbandonandolo, preda facile, agli istinti suoi più bassi, afferenti a quella natura animale che questa “cultura” potrebbe dominare e indirizzare. A questo mi pare vogliano riferirsi gli accoppiamenti bestiali, o con esseri divini, la reiterata compulsione onanista del vituperato e sputacchiato Paletta del primo episodio, che gettano cotanto scandalo tra le fila dei benpensanti, all’idea di una immane perdita del senso e del valore, che allora rende lecita, non più contenuta e censurata, qualsivoglia pratica corporea, la profanazione di ogni simbolo e di qualsiasi valore “culturalmente” umano (basti pensare che nel secondo episodio Fefè e Pitrinu, pur di realizzare il loro sogno d’amore pederasta non si fanno scrupolo di violare la tomba del padre del secondo con l’avallo dell’anziana madre, per spogliare la salma di ori e gioie).


Un problema di sguardo, di una visione che si ferma all’immediatezza e alla superficie, cui possiamo ricondurre anche quell’idea di Ciprì e Maresco misogini, nemici delle donne, che attraverso la mascolinizzazione indistinta di ogni ruolo, vorrebbero in qualche modo sminuirle o escluderle dall’orizzonte del rappresentabile.
Un nodo problematico solo apparente, che facilmente si scioglie raccorciando la focale del nostro guardare, e dunque allargando la superficie dell’osservato. Non era infatti pensabile l’ingresso del corpo femminile in questo anti-mondo di lerciume e bruttezza, proprio perché per i due registi, la cui prospettiva è fisiologicamente eterosessuale, questo avrebbe rappresentato un’indebita irruzione del bello, dell’appetibile, del porno inteso come forma sublimata del desiderio sessuale, per quanto abbrutito sin oltre la soglia dell’animalesco. Un orizzonte di desiderabilità che mal si concilia con la generale poetica del respingente che domina questa diegesi, come d’altronde testimonia il fatto che nelle parti femminili non ritroviamo bei giovani androgini, di femmineo sembiante, di aspetto invitante, ma vecchi laidi sdentati e baffuti, i cui corpi sono del tutto inadatti a suscitare le concupiscenze di chicchessia. Semmai mi sembra interessante notare che tra le fila dei detrattori-censori spicchino alcuni referenti istituzionali di un certo rilievo, come il Ministero per i Beni Culturali e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, presenze che possiamo leggere come spia della ulteriore “doppia pericolosità” di questo difforme (e deforme) oggetto filmico.


Perché è indubbio che Totò Che Visse Due Volte ponga dei problemi e imponga una riflessione sul piano della funzionalità culturale del film come forma di rappresentazione, metta un punto interrogativo laddove il sistema cultura-Italia impone solo certezze. Cosa può, e secondo la prospettiva istituzionalizzata deve, fare un film? Il film accettabile dal contesto culturale, proprio perché a doverlo sdoganare e vidimare è questo contesto medesimo, non può assolutamente incrinarne la tenuta e l’identità, non deve in alcun modo far dubitare della sua giustezza e salomonica giustizia. Anche quando l’intenzione sia polemica, la riflessione magari anche amara e risentita, la sua funzione culturalmente riconosciuta non può essere quella di porre in essere una visione, e cito di nuovo il verbale della Commissione Censura: «[…] riproducente una cultura che non esiste se non nella forzatura deteriore di chi tende a defraudare la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità […]». In altri termini, non si può rappresentare la cultura per come non esiste ma solo per come esiste già, per come si trova allo stato attuale. Quel che al film si comanda, insomma, è di farsi specchio passivo della cultura di appartenenza, di rappresentarla solo e unicamente secondo il sistema di regole che essa stessa impone, le uniche, a quanto dicono, in grado di garantire il rispetto della dignità del popolo italiano e «dell’umanità» intera, «nientepocodimeno».

È possibile, certo, fare film dalla parte dei vinti e dei più deboli, in questo sistema, ma solamente fino a quando valgano come autoconferma della bontà del sistema culturale stesso, che ammettendo queste forme di autocritica parziale e non sostanziale, si auto riconferma, e si autoassolve, nella propria sensibilità e attenzione verso questi temi e questi diseredati, ribadendo a se stesso e al popolo di essere un sistema buono, che sa fare ammenda per i propri sbagli e limiti (vedi Il Traditore di Bellocchio). Di auto-assoluzioni in Totò Che Visse Due Volte, disgraziati Maresco e Ciprì, invece non v’è traccia; al massimo c’è la nuda constatazione, amara, sì, risentita, certamente, di uno stato delle cose, che inevitabilmente lo spettatore critico, finirà coll’intendere come denuncia polemica, anche se non possiamo dirci certi dell’intenzione dei due gaglioffi registi. Un film può legittimamente operare in senso critico solo se non mette in discussione l’«insieme delle regole esterne di comportamento che stabiliscono ciò che è socialmente approvato o tollerato», mentre la creatività deviata di questi due autarchi del rappresentabile, dell’intollerabilità fa regola e grimaldello che scardina ogni comoda certezza auto-assolvente. Volendo guardare senza pregiudizi a questa messinscena disturbante, poi, si può vedere oltre, e intuirne il pericoloso portato eversivo anche su un piano più strettamente politico. Si perché ogni attività di rappresentazione sensibile di una certa realtà storico-sociale, il “dicibile”, ciò che può essere detto in una data società, il suo “visibile”, inteso come ciò che può o non può essere visto in quel sistema, e dunque il suo “mostrabile” hanno un radicamento che è, in senso lato, politico. Consideriamo solo la sfera del visibile e del mostrabile, che sono quelle che più direttamente investono il tema in questione.

Ogni società e ogni epoca, ogni cultura, si sono dotate di regole precise che normano la produzione delle immagini, stabilendo sia che cosa è lecito o non lecito mostrare in una immagine ma anche il come mostrarlo e il come guardarlo. È per via di queste regole che, tanto per fare un esempio, l’immagine della donna, il tema del femminile saranno profondamente differenti in un dipinto allegorico del 1200 e in un 8mm del Feminist Film Movement degli anni ’70. Regole che investono tanto il modo di produrre le immagini quanto quello di interpretarle, di intenderne il contenuto iconico, per cui nell’un caso lo spettatore guardante ricercherà il portato simbolico e religioso, mentre nell’altro quello sociale e politico. Un insieme normativo che in larga misura si definisce a partire da quelli che sono i valori estetici, morali, filosofici e politici della società che li produce, cioè il sistema culturale di quella fase storica e di quella parte del mondo considerato nel suo insieme.
Non occorrerà scomodare il materialismo dialettico di Benjamin per comprendere che il porsi in posizione di continuità e accettazione con questo sistema di regole, sia implicitamente l’espressione di una precisa presa di posizione nei confronti del più generale sistema culturale che di quelle regole fornisce i presupposti ideologici, morali e, in senso lato, politici. Quando poi ci si addentra nello specifico filmico, tutto ciò si integra alla normatività che regola un sistema di produzione, ovvero un preciso sistema di finanziamento, anch’esso dipendente dal più generale sistema culturale di appartenenza, che riguarda il modo di trovare i capitali necessari alla realizzazione delle opere e dunque produrre le immagini, il modo di distribuirli e, non ultimo, il modo con cui l’utente finale, il regista, questi danari utilizza e spende.
Dunque, in ultima analisi, Maresco e Ciprì, nel loro mettere in immagine una cultura che, secondo la cultura ufficiale «non esiste se non nella forzatura deteriore» scaturita unicamente dal loro immaginario deviante, e con il loro portare sugli schermi immagini che per il sistema di regole del nostro vedere e mostrare sono «scene chiaramente blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale, di violenza gratuita e di sessualità perversa e bestiale, con sequenze laide e disgustose» in realtà non stanno semplicemente violando le regole del visibile nostro contemporaneo, no, stanno esprimendo una posizione pericolosamente eversiva, reclamano per l’artista un’autonomia di pensiero e creazione che ha ricadute pesanti sul piano della visione politica, perché configura un rifiuto e un’indipendenza che riguardano il sistema culturale nel suo insieme e dunque la possibilità di un agire nella società di questo artista che, sfuggendo la regola è di fatto spaventosamente incontrollabile. Prova del nove di cotanta pericolosità è anche la difforme pratica produttiva che adottano, che non corrisponde al modello imperante del cinema capitalista, di un cinema pacificato che, per ovvia necessità, debba supinamente accettare le regole di contenuto ed esposizione dettate “dal padrone” detentore del necessario capitale. Un’indipendenza del dire e del mostrare che, contro ogni speranza sistematica, riesce, pur con fatica immane e dovendosi inerpicare per scomode vie traverse, a trovare (quasi) sempre il modo per autofinanziarsi del tutto in parte, ribadendo ancora una volta l’indipendenza dell’intellettuale, artista, metteur en scène.

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