«-Perché continui a filmare?
- Per la memoria»

Still Recording è un atto d’amore. Il protrarsi di un’idea oltre la propria morte, in costante lotta contro la sua natura. Incrinandosi fino a spezzarsi, il vertoviano uomo con la macchina da presa erra tra le rovine di Douma alla ricerca della stasi, momento in cui la vita travalica la guerra, mostrando squarci dai quali sgorga il senso stesso del gesto-cinema.

Nella sospensione del vorticoso quotidiano posto dentro il conflitto si apre così un orizzonte altro in cui anche una telefonata alla madre, fare jogging tra le macerie, cercare la propria famiglia attraverso la macchina da presa, riescono a sbaragliare il senso mortifero della guerra, irradiando di luce vitale le rovine di un paese che fu. Non c’è intento di denuncia nelle immagini, né quello di sposare una causa, il punto di vista rifugge semplici manicheismi.

Tutto è in discussione, perfino la rivoluzione e i suoi mezzi. La posizione da prendere è raccontare, mostrare, perché il tempo non dimentichi ciò che è stato; raccontare non la rivoluzione ma l’umano, che rimane latente, contorno alle macerie, finché il cine-occhio non scende per le strade. Per farlo l’immagine viene scarnificata dell’artificio, della morale, fino a giungere alla materia stessa di ciò che appare.

In tal senso, c’è una dimensione ontologica del filmare che non può accomunare Still Recording a Lo Stato delle Cose, un carattere trascendente l’analogia filmica che appartiene ai territori dell’etica; una necessità altra in cui l’atto del filmare antecede la forma cinema. La stessa che il 6 luglio 2016 spingeva Diamond Reynolds a continuare a registrare, mentre il suo compagno, Philando Castile, si spegneva al suo fianco. Tale che riprendere diventa prima un atto di fede che un atto artistico: perché «le immagini sono l’ultima linea di difesa contro il tempo»  dicono Saeed Al Batal e Ghiath Ayoube; filmare è innanzitutto credere che l’immagine possa diventare l’inesauribile riserva della memoria collettiva, che nemmeno i MiG possono annichilire.

Resta tuttavia forte l’impressione che ci sia una tensione lacerante celata nell’immagine, un ospite inquietante proveniente dal fuori campo che dimora nel rapporto spettatore-regista. Un agire su dinamiche diverse dalla sconvolgente immediatezza dell’immagine, la sedimentazione nella coscienza spettatoriale di una nostalgia verso i mondi possibili.
Perché Saeed Al Batal e Ghiat Ayoub mostrano che Still Recording poteva essere Verao Danado, in un altro tempo, in un altro luogo, con altre premesse.

Ma in un certo senso lo è, ancora: l’impetuosità giovanile, di tutta una generazione, permea per intero il film travalicando differenze linguistiche, facendosi discorso per chi vive di quelle pulsioni. Film generazionale per la fede nell’immagine, per l’ideale di permanenza contro il tempo, perché aspira ad essere giovane per sempre, come i rivoluzionari, come le immagini che lo compongono.

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