Esiste una superficie da non sottovalutare nella filmografia e teatro grafia di Marco Bellocchio. La superficie che copre il letto di un fiume quasi prosciugato da una diga ma che continua a scorrere tra le ans(i)e del corso principale e dei film maggiori. Sotto un ponte, il Ponte Gobbo, come Rigoletto. Detto anche Ponte del Diavolo. Dal quale si scorge il fitto intreccio di visioni trasgressive e demoniache, allusive ed eretiche. Compresa, va da sé, quella de La visione del sabba. Tale superficie, cinematografica e biografica, coincide con una circostanziata porzione di territorio piacentino, immediatamente identificabile. È Bobbio, il centro del mondo.

La “Caput Mundi” bellocchiana per eccellenza, un tempo fatta oggetto di un sentimento misto di rabbia, insoddisfazione, condiscendenza e confidenza, appare da qualche anno a questa parte più rassicurante. È una lunga serie di storie, dentro una storia che è anche la Storia italiana. Comincia indicativamente dai cortometraggi realizzati nell’ambito del laboratorio estivo “Fare Cinema” di stanza a Bobbio, alcuni dei quali confluiti nell’originale Sorelle sviluppatosi poi in Sorelle Mai e in Sangue del mio sangue. I motivi sono tanti e comprendono certamente la sfera affettiva, la tenerezza familiare, la commozione, lo sguardo diretto, il profondo coinvolgimento nelle cose e nelle relazioni umane e di sangue che gli appartengono. Senza però escludere o precludere la possibilità speciale di dotarsi così, a Bobbio, giocando in casa, anche di un apparato domestico di copertura, già pronto. Attingervi, come opzione alternativa, quando serve, se serve in termini di invenzione artistica, diventa un valore aggiunto di un’opera, la prima, I pugni in tasca. E dell’intero indotto di opere che agiscono nello stesso perimetro a intervalli irregolari, senza un preciso disegno, che forse risulta più evidente ad un osservatore esterno. Concluso o meno, ci piace chiamarlo il ciclo di Bobbio.

In questa “zona franca” che si profila con sempre maggiore consapevolezza e cognizione di causa dentro l’opera omnia di Bellocchio, vigono leggi di senso molto delicate, tutt’altro che rigide. Regole non scritte e non verificabili, che necessitano di precauzioni indiziarie ed ipotetiche. Ma da cui si ricavano benefici non da poco.

Bobbio è certamente il “posto delle fragole” di Bellocchio, nella buona e nella cattiva sorte, ma anche e forse in prima istanza la cassa di risonanza di vasto mondo elaborato al proprio interno e rielaborato in chiave filmica mediante il ricorso al repertorio autoreferenziale. Insomma, come già la Monumental Valley per John Ford, l’isola di Fårö per Ingmar Bergman, Tokyo per Yasujirō Ozu, Parigi per François Truffaut, Rimini o Roma per Federico Fellini, New York per Martin Scorsese. Ma non per questo l’autore della sua personale immagine reiterata di Bobbio se ne fa semplicemente schermo. Semmai la porta e riporta in continuazione sullo schermo con effetto moltiplicatore, generando un sistema di vasi comunicanti di cui si stenta a trovare una logica elementare. Stralci dello stesso film cardine, I pugni in tasca, vengono adoperati, secondo un fisiologico e costante principio intermediale che informa tutta la sua filmografia, in flashback, libere associazioni, soluzioni di montaggio in concomitanza con le scene e le situazioni equivalenti in Sorelle/Sorelle Mai. Ma questi non sono brandelli di “passato” reale che si interfacciano ad un “presente” altrettanto reale, bensì immagini cinematografiche ineccepibili che rimandano ad altre secondo modalità di mise en abîme che si alimenta incessantemente di vita e di rappresentazione, in cui è infine difficile districare uno strato dall’altro, gerarchizzarne i livelli, stabilire cosa viene prima e cosa dopo, quale dimensione abbia determinato quella successiva. Inoltre, ogni qual volta egli elegge Bobbio a set privilegiato dei suoi film ne offre inequivocabilmente un ritratto sopra le righe, scosso da moti, tensioni, conflitti, traumi orizzontali e verticali di varia origine o provenienza, interna ed esterna, reale e mentale, materiale e morale. Questo piccolo, salubre e appartato angolo di quiete o di inquietudine dell’entroterra piacentino, immerso nella Val Trebbia, può darsi a vedere come posto sicuro, in cui trovar rifugio, o come condanna a non riuscire a trovare mai scampo, a liberarsene una volta per tutte. A Bobbio si può essere al riparo da tutto, o almeno illudersi che ciò sia possibile, come se il sito esistesse fuori dal mondo, a prescindere dal mondo. Ma anche constatare l’esatto contrario, scoprire con allarme e costernazione che il mondo arriva anche lì ad esigere il suo tributo di conoscenza, di resa dei conti, di verità a lungo conservata, preservata, rimossa. Accade in Sorelle Mai, con i violenti e implacabili creditori di (Pier) Giorgio Mai/Bellocchio, i quali non esitano a varcare la soglie della casa familiare per reclamare il dovuto. Accade ancora in Sangue del mio sangue quando stavolta è il redivivo, reincarnato, omonimo Federico Mai, interpretato sempre da Pier Giorgio Bellocchio, ovviamente non per caso, a invadere lo spazio segreto del conte-vampiro per attuare una truffa immobiliare o, più tardi, nel finale legalitario, etico e catartico, nientedimeno che la Guardia di Finanza a irrompere all’alba a Bobbio per eseguire una serie provvidenziale di prevedibili controlli, sequestri e arresti. 

Come provvederà Sangue del mio sangue a ribadire a chiare lettere, per bocca del vampiro troppo vecchio per mordere, a causa di denti non più all’altezza della situazione, del mito, dei tempi andati, che Bobbio è essa stesso il mondo. La Bobbio di Bellocchio, in quanto autore cinematografico, si riconferma, tra corsi e ricorsi di ogni tipo a un centro gravitazionale dove infine, la fine provvisoria di Sorelle Mai, l’amico e icona di sempre Gianni Schicchi sulle note sibilline di Vecchio frac/L’uomo in frac di Domenico Modugno si inabissa. Uno spazio di prova dove, lo si è visto e sottolineato, un canto alpino serve a renderla una placida versione aggiornata, consociativa, potente della pasoliniana, terribile Salò. In una Bobbio/Salò che con il peso specifico ad essa assegnata dalle immagini bellocchiane finisce per saturarsi e trascendere l’effetto di realtà, a suo tempo persino l’eco del terrorismo brigatista nella seconda metà degli anni Settanta si è fatto sentire. Dove meno te l’aspetti: a tavola, tra gli allegri e polemici concittadini e commensali del regista, reduci da In nome del padre e intenti anni dopo, nel 1977 a fare una rimpatriata. L’episodio, cui è accennato poc’anzi, è l’explicit bobbiese della seconda puntata di La macchina cinema, sulla cui falsariga fanno seguito a stretto giro, nell’estate del 1978, le riprese di Vacanze in Val trebbia, non meno fitte di spunti interessanti. Uno tra tutti, la presenza di un giovane Cristo in croce che torna nottetempo in paese, nudo, il quale rimanda all’immagine cristologica di Moro restituita direttamente o per analogia, grazie al montaggio, in Buongiorno, notte. Tanto da indurre a considerare consequenziale e concettuale anche il dipinto recante la crocifissione all’ombra del quale in Sorelle Mai si consuma lo scrutinio che lacera la coscienza della giovane insegnante in crisi sentimentale, che si chiama guarda caso “Anna” come tante altre protagoniste onomasticamente molto allusive, all’improvviso decisa a non far bocciare uno studente, pungolata anche da un racconto di Maria (Luisa) Bellocchio/Mai e da una visione scenica interiore delle Eumenidi della trilogia di Eschilo.

Respingere uno studente equivale in pratica a condannarlo a morte, come se si trattasse di crocifiggere Gesù Cristo o, contrariamente alla volontà della plurivalente “Anna” di turno, “eseguire la sentenza” nei confronti del malinconico Presidente della Democrazia Cristiana nella tragica primavera del 1978 al quale Bellocchio sta per tornare nella serie televisiva Esterno notte, controcampo personale ed esteso, non a caso, di Buongiorno, notte

Tags: