La concitata forza del momento della visione del dipinto di Michelangelo Merisi, il movimento interno che inquadra le sette opere di misericordia a partire da quella schiena scoperta, dalla bocca a suggere il seno della donna, dai piedi lividi, diventa nel film di Gianluca e Massimiliano De Serio l’istantanea di una marginalità umana, resistente alle scosse violente del quotidiano: tutta una voragine esistenziale, laddove l’istinto di sopravvivenza si mescola alla brutalità del vivere ma si unisce, nel medesimo istante, alla grazia, che è compresenza di luce e buio: così Luminita a fluttuare in primo piano nel campo nero, il volto appena visibile su un bambino che piange, al chiarore di una palla cangiante, sole che si sposta nel vuoto e incanta, le lacrime s’asciugano, il pianto si ferma, ed è lì, in questo galleggiare azzurro nell’aria che s’apre la danza, s’allarga lo sguardo, lunghissimo piano sequenza a scavare gli occhi.

Nell’opera dei De Serio la misericordia che inscena Caravaggio nell’unità narrativa di episodi molteplici ma che confluiscono, appunto, nella sintesi ottenuta come effetto visivo della tela, resta condensata dentro la prigione del piano, dove solo è possibile mettere in atto quello scarto latente che esiste tra immaginato e immaginabile, visto e visibile; fatto che è in sé libertà, percezione, campo d’azione dove si compie la compassione, la comprensione degli uomini. Ma questo sanguinare e annaspare, questo faticare a respirare, ad esistere, che giustifica la lentezza del farsi delle scene, la stasi – immobile la macchina da presa su brandelli di storie, carni lacerate, consumate, consegnate alla morte; che, guardinga, disfa il corpo, pezzo a pezzo, stretto nei tagli delle rughe, nelle pieghe della biancheria sul letto, corpo manipolato, manipolabile, dalle mani che lavano, che spostano gli arti stanchi, oggetti su cui è caduto il mondo – è l’unica via di fuga degli ultimi, dei derelitti, che soltanto nella prigione in cui restano sono capaci di avere cura gli uni degli altri. Ed è in quelle rilucenze mosse lentamente nel nero del campo che si intravedono gli spazi libertari e identitari del cinema, qui nella finzione del racconto – che, tuttavia, non smette di interrogare il reale come già, nella forma del documentario, in Stanze – e dentro le gabbie si libera la fuga di uno sguardo, questo sì che sfugge alla stasi dei movimenti di questi pezzi marginali di umanità irredenta. 

Una visione laica di come esista un’alterità sconosciuta in ciascuno: la frase plautina poi accolta da Hobbes secondo cui «lupus est homo homini, non homo» ha da subito nell’opera dei fratelli De Serio un risvolto inatteso: sposta la donna un paravento in ospedale in una delle scene in cui «vestire gli ignudi» è la misericordia di un gesto, in primo piano, di una potenza visiva violenta nella tenerezza, mettendo al riparo quel corpo annientato dall’oscenità incombente della morte.

I movimenti di macchina, circolari o dal basso, tendono a liberare il non detto di quei corpi, degli occhi, ruvidi, pregni di pianto, delle bocche mute, dei polsi legati. L’orizzonte del visibile lascia intravedere il tempo dell’immagine e nell’immagine, interrotto il movimento dell’azione, in questo scorrere lento sopra la vita. Che manca di vicinanza, di comprensione. 

Ma il bisogno spinge alla cura. Avere cura dell’altro – già a partire dall’azione di accarezzare un cane tra le sbarre da parte di un Herlitzka che poco prima ha stretto fra le dita un pezzo di pane sotto lo scroscio dell’acqua – è già misericordia, che scivola via liquida, fino a perdersi poi nel silenzio, bianco, dei titoli di coda.