Dei molti discorsi possibili a proposito di, e a partire da, La Mafia Non È Più Quella D’una Volta scriverei qui solamente di un significato di seconda battuta, una riflessione emergente a posteriori e angolata secondo una prospettiva prettamente comunicazionale. La mafia è uno straordinario capolavoro dell'evoluzione di specie, se pensiamo che ben più di ratti e blatte, ha saputo sviluppare un'incredibile capacità di adattamento e sopravvivenza ai mutamenti di contesto e d’ambiente.

È mutata l’economia, che da locale s’è fatta globale, come la politica, che al di là dell’avvicendarsi di volti e nomi nei ruoli di vertice si è profondamente rinnovata nelle modalità di innervazione delle sue più o meno lecite e più o meno sommerse relazioni di potere, è mutata la comunicazione, sempre più 2.0 e post-televisiva, senza che li dominio tra le specie predatorie di questa mafia trasformista ne risentisse. Qui si cercherà di riflettere su come questo processo abbia investito di pari passo anche gli aspetti mediatici di comunicazione della sua immagine e della sua narrazione mitica, il campo entro cui, su opposti fronti, operano tanto Ciccio Mira che Maresco in solido con Letizia Battaglia, cercando di capire le ragioni per cui, parafrasando il titolo, possiamo dire che “l’immagine della mafia non è più l’immagine di una volta”. Cominciamo col dire che il pervicace cancro ha saputo negli anni neutralizzare gli anticorpi delle narrazioni collettive ad esso antagoniste, quelle dell'informazione sulle gesta degli eroi dell'antimafia, fagocitandone e rimetabolizzandone segni e segnali per produrre nuove e più adatte forme di narrazione che perpetuino il mito mafioso e ne fortifichino l'identità. Un processo in cui hanno avuto  un ruolo di prim'ordine le rinnovate strategie con cui la sua immagine e il portato di terrore che ad essa si deve associare si formano e si diffondo sul territorio, nell'immaginario della gente.

 La mafia Non E' Più Quella Di Una Volta e, soprattutto, non comunica più come quella di una volta, ed è questa la ragione per cui oggi è possibile organizzare un concerto per festeggiare, non tanto per ricordare (la differenza non è poca fa notare la Battaglia con un che di bile) l'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel centro del quartiere Z.E.N. di Palermo, roccaforte di famiglie e cosche in cui perfino la polizia esita ad entrare. Un evento paradossale tra la buffonata carnascialesca e l’insulto nemmeno lontanamente pensabile, sino a pochi anni fa, quando la strategia comunicativa dell’organismo mafioso era quella della cancellazione della memoria storica, dell’elicitazione di ogni possibile segnale che potesse alludere a una qualche forma di resistenza attiva operante in seno ai suoi domini. Ma nel nuovo contesto post-televisivo le strategie si mutano in corsa e il dogma roccioso del silenzio, roba da tempi che furono, viene sostituito da una modalità di comunicazione più morbida e subdola, che sfrutta meglio le regole di circolazione di immagine e narrazioni proprie del sistema infosferico tipico della società legale e riconosciuta. Le mitologie, una volta affidate al passaparola, alla carta stampata, ai servizi dei tg oggi si propagano alla velocità incommensurabile dei bite che corrono sui circuiti iperconduttivi del web, e ogni valutazione personale di veridicità risulta affievolito tutto è vero, tutto è fake. Oggi sono normali le osmosi con gli immaginari mediatici e televisivi, che, anzi spesso esercitano una funzione modellizzante su molti aspetti della realtà e l’estetica di una “gomorrizzazione” deteriore delle narrazioni di mafia domina et impera. Condizioni, queste, che rendono più facile, e spesso più utile, appropriarsi e riadattare simboli e i codici del “nemico”, quelli della comunicazione ufficiale, per renderli funzionali alla perpetrazione del proprio mito criminoso. In questo quadro di narrazioni globalizzate, in cui tutto diventa story-telling, Falcone e Borsellino possono essere ridotti, nella percezione che se ne diffonde, a qualcosa di molto simile ai personaggi dell’ennesima serie tv a tema mafioso, due ruoli da eroico commissario televisivo fatti saltare per aria da un qualche Savastano di turno. Ecco che allora ciò che prima era impensabile, come autorizzare i festeggiamenti di piazza, non le commemorazioni, che si tengono annualmente in occasione della ricorrenza delle due stragi, può risultare innocuo, e quindi consentito, perché in questa nuova semiosfera le icone, i simboli che vi si portano in processione, sono stati depotenziati e circoscritti nella loro pericolosità.

Il ricordo tragico ridotto a simulacra definitivamente “disinfettati” dal legame stretto col sangue, con le budella maleodoranti sparse sull’asfalto delle persone reali, perché tutto è fiction, e in questa transustanziazione protofilmica anche l’esempio straordinario di volontà strenua, questa sì letale per la mentalità mafiosa, che hanno rappresentato questi magistrati diventa qualcosa di vago, di solo immaginato. Una carnevalizzazione festaiola e mediatica consapevolmente portata avanti da chi, la mafia, ne è principale voce narrante e attore, e a cui la piazza, la gente, involontariamente partecipa nel ruolo di spettatore e comparsa, ma che non per questo diventa meno perniciosa, perché ha l’effetto di neutralizzare la componente più educativa di quel ricordo: il dolore. Della memoria di Falcone e Borsellino infatti, quello che sembra perdersi è l'idea che si tratti prima di tutto di due immagini dolorose, di più, tragiche, persone reali che furono esempi sovra-umani del senso del dovere e della forza di volontà (uniche armi che si sono dimostrate efficaci nella lotta), si dimentica che hanno combattuto nella quasi totale solitudine istituzionale, e che il fio che hanno pagato è fatto di vero sangue, di famiglie reali smembrate, di figli veri, cresciuti senza padri. Icone pure, simili per inconsistenza ad Elvis, al Che, o all’intramontabile Marylin, figure desemantizzate nel nome di cui diventa più che lecito scendere in piazza a ballare e a cantare, invece di ricordare dolorosamente. Diventa possibile, magari forzando un po' le cose e reinterpretando un po' la loro narrazione mitica, organizzare una disastrata kermesse di artisti che ostinatamente si rifiutano di pronunciare in pubblico le fatidiche parole «abbasso la mafia». È questo il rischio maggiore che Letizia Battaglia vede guardando al corteo di giovani canterini e danzanti. «Manca solo l’odore dei panini con la salsiccia» dice amara, avendo nello sguardo di ragazza giovane la consapevolezza di come  proprio la ricorrente carnevalizzazione e spettacolarizzazione di questi simboli della resistenza sia anche il viatico per il declassamento a fenomeni da baraccone.

Non è dunque in nome degli esempi adamantini di coraggio e dedizione che furono i due eroi, che Mira organizza il suo spettacolo, ma in quello delle loro icone depauperate, personaggi da serie tv o statuine da presepe napoletano che andranno ad affiancare quelle di Maradona e Genni Savastano. Allora sì, diventa lecito anche allestire questa improbabilissima parata di artisti in malarnese, per ricordare, buon cuore di chi comanda «a camurria», le cose positive che Falcone e Borsellino hanno fatto, come «a ‘llumazione pubbica, i’ggiardinggio’ come ‘i ville, e’ scol’lementari e i ggiaddine pubbici» come ci fa sapere Matteo Mannino, produttore di Mira e finanziatore dell’evento, salvo poi barricarsi dietro a un tombale «non-comment» quando si trova pungolato dal solito Maresco sul ruolo che i due giudici avrebbero avuto nella lotta alla mafia. Lo spettacolo di Mira, rivela una pericolosissima risignificabilità che comporta la completa risemantizzazione delle figure dei due morti per mafia. Infatti, in questa logica delle cose è del tutto lecito, al primo mutar d’umore del pubblico, introdurre in scaletta Frate Carcerato e altre hit del genere neomelodico-galeottesco in sostituzione delle ballate tristi in lode dei due caduti. Una logica obbrobriosa per gli effetti di senso che produce, perché mette Falcone e Borsellino sullo stesso piano semantico di carcerati, picciotti e “amici degli amici”, ugualmente cantabili all’interno dello stesso spazio di rappresentazione. Uno dei timori che emerge dal film, infatti, riguarda proprio questa nuova elasticità dei confini, per cui tutto può diventare parte del “sistema”, tutto è tollerato, anche un concerto per gli eroi dell’antimafia nel cuore del quartiere Z.E.N., «perché in fondo fa comodo a qualcuno», come il povero Mira incalzato da Maresco tenta maldestramente di negare, qualcuno che questo concerto lo ha «autorizzato», come Mira di nuovo nega. Quando La Mafia era ancora Quella Di Una Volta, e il suo linguaggio era quello “classico”, quello delle “offerte che non si potevano rifiutare” e del “nente sacciu signor tenente” tutto era più netto e di semplice lettura. I concetti erano chiari e i loro contorni non negoziabili. 

Si sapeva che c’era il male, un male assoluto, lo Stato con i suoi sbirri paladini e c’era un bene, la mafia, e in questa certezza di significati e significanti, si sapeva, certo come la morte, che ogni narrazione contraria, o anche solamente promiscua, si pagava con la pena capitale. Della nuova instabilità semantica si avvantaggia solo l’anti-Stato criminale perché, almeno in teoria, lo Stato istituzionale dovrebbe (un condizionale che uso con dolore, ma che mio malgrado è d’obbligo) parlare il linguaggio delle certezze e della chiarezza, come fa questa Letizia Battaglia mai doma. Nella nuova zona grigia le definizioni si fanno meno nitide e i significati, anche opposti, si contaminano, ed è qui che trovano ampio spazio la semantica plasmabile di Ciccio, e il grottesco surreale, ma drammaticamente iper reale, delle sue risposte elusive. Il grottesco, sempre, è frutto di una qualche frizione tra generi, umori, intenzioni diverse verso il mondo, e Maresco è abilissimo nel lasciar collidere e stridere la certezza semantica dell’universo dei significati della Battaglia, che non lasciano spazio a rinegoziazioni del senso, e la picaresca sfera di comunicazione paludosa, adattabile a contesti e interlocutori, di Ciccio Mira e Sodali. Certo, poi, Maresco non ha cuore di prorompere in un giudizio di condanna in via definitiva nei loro confronti perché non sono loro i pupari che muovono i fili di questa farsa. Quelli che abbiamo di fronte al massimo sono Arlecchini, forzatamente servi di due padroni, costretti tra la violenza dell'anti-Stato, e l'esibizione del dovuto rispetto verso lo Stato, tentando di non offendere l'uno ne l'altro.

Allora, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, che Borsellino e Falcone furono eroi della lotta alla mafia è possibile dirlo perché tanto «è pe’ chell’ autri, ch’a noi nun ce ne futte ‘na minchia». È una guerra di parole. Le parole della Battaglia che dicono e svelano in contrapposizione a quelle di Mira e “amici”, che nascondono e falsificano. L’impatto non potrebbe sortire esiti più ridicoli, certo, ma la consapevolezza che le parole siano anche il ricaduto di una morale e il modo in cui le usiamo il resoconto di un’etica, raggela il riso nel tipico ghigno mareschiano. Nel contrasto, com’è naturale, le componenti reciprocamente si esaltano, per cui la solidezza granitica della Battaglia si staglia ancor più monumentale, mentre la zona grigia di Mira appare in tutta la sua micragnosa pavidezza di comodo.
Non si pensi però che questo sia un film che cerca “i colpevoli”, perché incolpevoli sono questi ragazzi festanti in piazza, il cui solo peccato capitale è quello di essere nati e cresciuti in un sistema di narrazioni e miti post-televisivi, che per sua natura de-realizza fatti e persone in icone mediatiche, e certo non del tutto colpevoli possono dirsi gli abitanti del sottomondo dei quartieri, prodotti inconsapevoli di una weltanshauung alternativa, immersi sin dalla nascita in un sistema di valori e in una narrazione mitica del mondo antitetica a quella proposta e difesa da Letizia Battaglia, che nonostante l'impossibilità attuale della vittoria, persevera nella sua lotta di ricerca di un’altra strada possibile e chiede a Maresco: «Cosa possiamo proporre, Franco, un’alternativa…un’alternativa…».

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