Più di una volta, credo per rivendicare la normalità, naturalità del proprio sguardo, Piavoli ha rifiutato la definizione di “cinema di poesia” usata spesso per cercare di penetrare la sostanza sonante e lucente del suo cinema; per tentare un orientamento entro un'estetica della ripresa, dello scorcio gocciante, della messa in scena spontanea, arborescente, che sfugge a una prassi cinematografica, come dire, narratologica, d’altronde egemonica, e si pone in una zona altra, periferica, quella del crepuscolo estroflesso nella propria quiddità, diveniente forma cinematografica in forza di un lavoro di inquadramento degli elementi; una zona di silenzio annidatosi tra i covoni, le stoppie, le navate ecclesiali; di solitudini disperse nel deliquio dei campi o dei corsi d'acqua che crepitano ancora di riflessi. 

Ma a ben guardare questo procedimento peraltro ossimorico, cioè questa selezione dei quadri all'insegna della spontaneità (tentativo messo in atto innanzitutto nella pittura, come un Antonio Lopez ericiano); e la cristallizzazione, entro questa cornice, degli elementi espansi, brulicanti secondo una metrica, è proprio ciò che identifica la poesia: un'ellissi del concetto, una fuga dal discorso, direbbe Derrida, in nome della concentrazione semantica e del fluire dello scorcio composto, previsto (che appunto vede prima, e le trasceglie, le possibilità di ordinarsi in un quadro), che è il presupposto piavoliano, ma già nelle sue Poesie in 8mm degli anni Cinquanta e Sessanta.

Ma si potrebbe anche dire “presupposto pascoliano” se si considera la comune tensione verso le cose, emergenti nella loro fremente sostanza; quella nominalità di cui scriveva Gianfranco Contini a proposito dello stile di Pascoli ‒ e definendo la funzione dell’onomatopea, del post-grammaticale, del pre-grammaticale, insomma di quel fonosimbolismo divenuto poi eponimo nel Novecento ‒, cioè il ricorso ai nomi e agli oggetti, agli squarci che essi veicolano, anche al di là (cioè in un’oltranza che torna sempre su una fervida immobilità dello scorcio) dei verbi e delle azioni. Tutta una poesia rivolta alla persistenza delle cose che mentre si mostrano, diventano: quasi si trasfigurano in un’impressione di se stesse, in sogno evanescente, proprio in virtù della durata di questo persistere e del seme, del sema dell’occhio che vi si posa, la contemplazione atta a dilatare i suoni, i colori, le forme in un’eco di campo, di scorribanda, tornando poi alla fissità diveniente, misteriosa del convento e delle strade, le piazze, che restano mentre passa il tempo.

Si tratta di una delle sequenze più belle di tutto il cinema di Piavoli, forse la più rappresentativa del suo approccio alle immagini, quando in Voci nel tempo i bambini si avventurano nei boschi limitrofi al borgo, nell’incanto dei sentieri, dell’intrico vegetativo, poi slarghi improvvisi e ancora l’acqua grondante di raggi, dove sperimentare un momento di solitudine e di malinconia inspiegabile; fino a ritrovarsi nella risonanza del convento, da cui affiorano i canti di un tempo mistico, come se questa melodia essudasse dai muri antichi, dalle plaghe di marmo, divenendo il sentimento del tempo, il senso profondo di una «chiesa antica,/ romita,/ nell’ora in cui l’aria s’arancia/ e si scheggia ogni voce/ sotto l’arcata del cielo». La voce del tempo dunque, echeggiante in ambiente ecclesiale, laddove lo spessore, la propagazione dell’eco ‒ che è qui, ora, ma allo stesso tempo è già avanti, e riflette il proprio retroterra, nel rutilare dei toni ‒ dà conto della mole diacronica, lo scorrere delle stagioni già lampante nelle Stagioni del 1961, girato in 8mm con uno stupefacente effetto pittorico, del resto connaturato al mezzo. Ecco allora questa coincidenza (il convergere in una gnoseologia coerente), tra il rifiuto piavoliano del concetto di cinema di poesia (che è più uno schermirsi di fronte all’elogio degli esegeti) e lo spiccato procedimento poetico: il porsi naturalmente, come un fanciullino, dietro la macchina da presa e assumerne l’intrinseco, segreto, portato trasfigurante; perchè sembrerebbe essere nella trasfigurazione del segno (con esiti pittorici, cinematici, musicali ecc.), nel muoversi verso un altro-da-sé, la prerogativa della poesia. Lo stesso movimento, radicato alla durata, alle modificazioni del suono, che il Pasolini casarsese poteva osservare nella chiesa cattolica, luogo sincretistico di un paese in scomparizione, in cui l’eco testimonia del corso del tempo, della perdita delle illusioni di gioventù, e che è della stessa sostanza dell’onomatopea pascoliana così come della “voce scheggiante” di Caproni. Il suono del tempo, colto nel panorama del mondo (questo rapporto spazio-tempo, basculante sul perno del suono, a definire il fonosimbolismo), che da Pascoli si è sedimentato, anche mutandosi profondamente, nel Novecento, tanto da divenire immagine in Piavoli, e avendo coinvolto poetiche anche contrastanti tra loro: da Montale (soprattutto quello delle Occasioni), al Caproni di Ballo a Fontanigorda, a Pasolini, Bertolucci, fino alle soluzioni ermetiche di Alfonso Gatto, Sinisgalli, Luzi (che d’altronde non potevano non portare inscritto il segno fondante del Sentimento del tempo), non dimenticando la versione più visionaria di Campana.

Tutto un modo di vedere il mondo (scoprendone ed evocandone l’enigma) dispiegatosi nel Novecento, e che ha trovato in Piavoli un punto di snodo essenziale per la maturazione di certo cinema, tanto da essere il modello per molti registi delle nuove generazioni, tra cui Fabio Bobbio, autore dello splendido I cormorani (2016), che sembra proprio ripartire da quei bambini ‒ dialoganti così ingenuamente tra il brusio del mondo ‒ che all’inizio della primavera si erano addentrati nei boschi, tra alberi rosati, archivolti monastici e il muretto su cui si sono posizionati alla fine del giorno, anzi sono stati posti dal regista in modo da comporre l’ingenuità, la flagranza della scena, da cui assistere ancora una volta al miracolo del trascolorare delle cose. 

È un inquadrare incantati gli oggetti, la materia, i nomi: correlativo filmico del desiderio dei nomi, anche propri di persona, quando in estate lo sguardo di Piavoli si adagia sulla flagranza delle fanciulle in fiore che frusciano di gonna, di gambe tornite; e ne tocca i fianchi, la schiena, le natiche scoperte in una ridda gioiosa e sfrenata, nel momento in cui una musica latino-americana detta il ritmo. Un toccare, sfiorare del linguaggio cinematografico, che via via pare tornare allo stato di lingua primordiale, che è quel “toccare amoroso” di Barthes, poi quello ancora più carneo di Nancy, nelle punte di festante, ebbro erotismo, mentre le movenze della ragazza traboccano fuori dal vestito a fiori, definendo i termini di una delle scene più erotiche, più candidamente erotiche, del cinema degli anni Novanta. E questo “desiderio nominale”, finita l’estate, torna a riempire di senso e sostanza le cose e i luoghi che prima erano stati lo scenario del corteggiamento dei giovani, ronzanti in moto, delle passeggiate, dei balli: strade macerate di fogliame sparso; le note di piano che scuotono gli alberi adorni di ruggine; i vecchi a scongiurare la mestizia della pioggia, dei canterani, degli orologi che rimestano il silenzio. Appaiono nella stessa luminosità e flagranza della finzione, dell’ordinazione del quadro, in cui erano comparse e di cui si erano nutrite tutte le cose del film: i volti, i corpi rappresi nei cappotti, gli occhi liquidi dei vecchi, ansiosi di fronte allo specchio della macchina da presa, sono disposti nello spazio delimitato come trepide nature morte, e in alternanza a scene evidentemente tratte dal repertorio, carpite nell’incoscienza dei soggetti, che mostrano una volta di più il vibrare, la vitalità dell’immagine. Che è ciò che accade nell’inverno finale, il ruzzare dei bambini, gli scivoli sui nevai, sul ghiaccio aranciato; le grida sulla superficie trasparente, andante del Canone di Pachelbel che parrebbe non essere più extradiegetico, ma nascere da lì, da quel tramestio, da quel big bang di materia algida che va incendiandosi di tramonto, e compiersi, scomparsi tutti gli altri, nell’attraversamento ‒ della vita ‒ da parte del vecchio e del bambino ora immobili, quasi consegnati al proprio destino di disperata scomparizione, a comporre l’ultimo germinante quadro di un desiderio.  

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