Ci sono film d’esordio che lasciano intuire un futuro, uno stile, un progetto che andrà via via perfezionandosi. La terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo non rientra in questa categoria. Non è un film che richiede ulteriori prove di là da venire per comprendere che tutto si è immdiatamente compiuto. Il futuro è già presente, lo stile e il progetto già maturi. Insomma, i due – oggi giovani – autori, fratelli e gemelli anche nella completa simbiosi artistica, alla loro opera prima si dimostrano cresciuti.

Cresciuti guardando altri film, ma non sistematicamente. Non c’è in loro lo sguardo dei cinefili che renderebbe altrimenti sterile la creatività, bensì il desiderio di vedere eventualmente film per confrontarsi, intercettarli all’occorrenza, alla pari, senza cioè doversi necessariamente ispirare, citarli. L’autore vero, in questo caso raddoppiato sul fronte del rendimento e a maggior ragione compatto, i film li fa, ne può guardare altri, tantissimi altri, ma in questi non cerca un supporto, un’autorizzazione, solo un esempio di come l’energia artistica riesca transitare ed esprimersi in chi il talento lo possiede davvero. Damiano e Fabio D’Innocenzo non cercano la cultura cinematografica, la fanno direttamente. Non si atteggiano a studiosi e censori di film, poiché i film che desiderano e non trovano li fanno e sono questi film a dover essere studiati, poi, da chi non ha il compito come loro di far procedere la storia del cinema italiano ma solo di registrarne i risultati. Non c’è niente di straordinario nell’avere vent’anni e possedere un talento potente, dinamico, versatile. Il cinema si può imparare fino a un certo punto, e in tempi molto brevi – come diceva Orson Welles – solo a condizione che vi sia dell’altro a monte. La terra dell’abbastanza trasmette questo senso di impressionante sicurezza, di controllo estremo sulla drammaturgia, rende tangibile la composizione del quadro, la direzione degli attori, l’idea di fondo di un mondo in cui l’esistenza trascorre dalla quotidianità alla tragedia d’impianto classico, senza soluzioni di continuità. Insomma La terra dell’abbastanza non è un film realistico, non è un film di genere e non possiede le ingenuità, anche soltanto in misura limitata o comprensibile per due esordienti. Non è un film di formazione e neppure un tentativo di stare sul mercato.

È principalmente un concentrato di energia allo stato puro, cupa, sconcertata e sconcertante che si rapprende attorno a una storia, a due protagonisti, a un rapporto di amicizia e di legami familiari ad un sistema di cause e concause che va oltre la periferia urbana e si fa mondo intero, ingrato, crudele, riconoscibile a ogni longitudine e latitudine. Sarebbe potuto essere un film di fantascienza o un horror, una commedia o un film di guerra e la sostanza non sarebbe cambiata. La terra dell’abbastanza parte da dentro, da un’intuizione, da un‘esigenza forte di raccontare e rappresentare, che non poteva che approdare sullo schermo. Nessuno avrebbe potuto mai impedire ai due autori, giovani soltanto per motivi anagrafici, di esprimersi e venire a capo del rebus di una serie di eventi che trascinano progressivamente i due protagonisti verso un destino inesorabile. Certo, si imbattono nell’apparato criminale, ne diventano parte, subissati come sono dalle regole del gioco sleale a loro volta ne trasferiscono la carica negativa nei rispettivi nuclei domestici. Eppure in questa spirale di violenza è proprio la violenza a essere bandita dalle immagini, tenuta a distanza di sicurezza, messa fuori campo e fuori gioco, depotenziata in quanto terribile agente tragico.

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Damiano e Fabio D’Innocenzo hanno debuttato con un film che rimuove ogni occasione di essere accattivante, disinnesca la suggestione spingendosi oltre l’empatia. Lo spettatore non reagisce a ciò che semplicemente vede o sente, immedesimandosi, nel bene o nel male, nella trama, nelle situazioni o nei personaggi, ma stabilendo con il film nel suo insieme una sintonia che nasce da questa mano sicura, dalla forza della costruzione, dalla fiducia in chi sullo schermo ci sa fare e non ha bisogno di provare, tentare, chiedere il permesso. Damiano e Fabio D’Innocenzo non sono timidi, non sono moderati, non sono furbi, non sono sprovveduti. Soprattutto non fanno cinema cercando di rientrare nei canoni o nei gusti di questa o quella conventicola, non vogliono piacere a chi decide cosa è o dovrebbe essere oggi il cinema d’autore o che va promosso a oltranza attraverso la rete produttiva, distributiva e festivaliera. La terra dell’innocenza era un film loro, gli apparteneva, lo sentivano così, non l’hanno quindi concepito per accontentare nessuno o per rientrare in una tendenza. La forza de La terra dell’abbastanza, che lo rende affascinante, imprevedibile, potente, diretto e complesso allo stesso tempo, alla portata di tutti, leggibile su più livelli, deriva da una scarsa propensione al compromesso, da un’immediata capacità di comunicare e condividere un’esperienza e un vissuto concreti, senza cascare nella trappola del cinema di consumo, ma neppure rientrando nella categoria del film da festival, sostenibile solo nella misura in cui è il festival a sopravvivere grazie ai film che fa sopravvivere, quasi per accanimento terapeutico. Damiano e Fabio D’Innocenzo non hanno bisogno di padrini o protettori né di cordoni sanitari di critici e organizzatori, solo di produttori pratici e intelligenti che sappiano metterli nelle condizioni di fare quel che sanno fare e hanno fisiologicamente dimostrato di saper fare, da subito. Per entrare in questo film, da spettatori, occorre avere un vissuto autentico, quindi il bisogno di rileggerlo sullo schermo nella sua forma trasfigurata, l’unica in grado di restituirlo e elevarlo su un piano di riflessione non didascalica né moralistica. Per realizzarlo un film come La terra dell’abbastanza occorre ugualmente un vissuto autentico che prende prepotentemente forma, quella forma, definitiva e irripetibile che impone inquadrature uniche, insostituibili, precise, che sfruttano in profondità il senso, stabiliscono la misura della partecipazione, restituiscono la pienezza di un discorso non riciclato da altri film, da libri, da giornali o dalla rete per effetto imitativo o per subalternità intellettuale. I due autori già adulti, umili, ricettivi, perennemente pronti a rimettersi in gioco, poliedrici, scrittori, sceneggiatori, poeti, fotografi, cineasti, spontaneamente competenti, esigenti e capaci di rigenerarsi e non ripetersi, cioè di fare il genere di se stessi, hanno molto da dire, quindi da rappresentare e raccontare. E questo “molto” non è, sotto mentite spoglie estetiche o banalmente rigorose, il proprio ego avido di visibilità e “successo”, che come ricordava Carmelo Bene è il participio passato di “succedere”.

Non c’è niente in loro che abbia a che vedere con il passato inteso come chiusura e tradizione, il passato possono solo ammirarlo, rispettarlo, assorbirne lo spessore attivandosi. Fabio e Damiano D’Innocenzo sono un oggetto nuovo, non identificato né identificabile nel panorama del cinema italiano ed anche facile immaginare nella sua storia, con effetto retroattivo. Non rientrano in alcuno schema esistente, non si piangono addosso come incompresi, poiché non vanno capiti, si fanno capire benissimo, asciutti e precisi in ciò che mostrano, non sono giovani vecchi come tanti loro colleghi ma giovani veri, dentro, irresistibilmente, e non hanno bisogno di essere raccomandati. Vanno benissimo avanti da soli, sono leali con gli spettatori, attraversati dalla loro stessa passione che si trasmette poi sullo schermo. Un film se lo fanno è perché sentono l’esigenza di concepirlo, guardandosi attorno, avidi di capire loro per primi e ricomporre ciò che captano, mescolandolo a quanto si portano dentro, da sempre. Cosa faranno da grandi? Niente che non abbiano già fatto, perché grandi ci sono nati. 

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