«La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

II est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l'expansion des choses infinies,
Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
Qui chantent les transports de l'esprit et des sens».

(C. Baudelaire, Correspondances)


«Dall’altra parte delle acque scure», stando all’epilogo del precedente film di Hintermann su Terrence Malick, Rosy- Fingered Dawn, c’è tutta una teoresi sulla materia cinematografica, sul suo portato di luce, di ombre attraversate dalla luce: rimandare al doppio aurorale, alla sintesi, in un momento, del dì nella notte, si connota oggi, pensando al più recente The Book of Vision di cui lo stesso Malick è produttore, in un periodo storico quanto mai determinato dal criterio dell’assolutizzazione dei punti di vista (dell’intransigenza del proprio modo di vedere le cose senza apertura alcuna al confronto), si caratterizza proprio come idea creante, spazio cinetico, estetico, di attuazione di un progetto, che è prospettiva, visione, rêverie di un mondo possibile. Così il dualismo tra orizzonte del «visibile» e del «visto» (Roberto De Gaetano, Il visibile cinematografico) è trasposto da Hintermann dal campo più propriamente percettivo a quello teorico, filosofico, toccando per certi versi degli aspetti focali, attuali, sui quali si ritiene debba concentrarsi l’interesse della critica.

The Book of Vision è un caleidoscopio di forme, prismi, sostanze specchiate, lenti, riflessi che attingono al reale doppio dell’immagine, materia derivata dall’idea di una «visione» del presente problematizzante, stratificata, che sia capace di interrogarsi sul senso della vita, dell’amore («[…] ma per me non esiste alcuna stagione se ogni amore giace spento» in una delle scene più rappresentative), mediante l’attuazione di un sistema di segni aperto, che interpreti la questione della verità attraverso la dialettica tra «Ragione» e «Fantasia», arte e scienza, realtà dei fatti sperimentati e realtà sperimentabile nel sogno. Ne emerge come dalle ombre che si allungano sul muro – rami che crescono nella penombra, linfa vitale che arriva non si sa da dove, da quale spazio remoto, da quale “tempo”: dallo stillicidio di foglie in basso, nelle inquadrature, mosse dal vento simili a pagine sfogliate senza una direzione precisa in quelle che paiono immagini liquide  –  un quadro di poliedrica instabilità che modula attraverso questo senso di indeterminatezza una questione spinosa ancora oggi, inerente al rapporto tra i campi del sapere e, più in generale, alla conoscenza: più in particolare, attiene alla definizione del vero, alla domanda circa la congruità di tale definizione con tutta la retorica ancora imperante, e che Hintermann velatamente critica, che sembra ripetere stancamente “se è verosimile, è vero”.

Ci si riferisce, per esempio, alla contrapposizione in atto tra scienza (e medicina) antica e scienza (e medicina) moderna, natura e oltre(altra)natura, pensiero razionale e pensiero non razionale: deviazioni dalla norma, chiaroscuri, incontri ma anche “ritorni”, di spalle/di fronte nelle scene della porta aperta/chiusa, in uno scambio continuo della storia fra passato e presente nelle figure della protagonista e del bambino, Valentin, creatura del bosco. La realtà documentata dal film di Hintermann – studiata, meditata, confrontata, ricordata, intuita, sognata, immaginata – è quella degli occhi di Eva, che “vede” attraverso il dottor Joahn Anmuth e il libro dal quale si sente come travolta, di cui dice: «È come studiare anatomia attraverso una poesia. Il libro è l’involucro esterno, le lettere sono il cuore pulsante». Eva, donna, madre che non teme di far nascere suo figlio che probabilmente la ucciderà; Eva che dà voce ai morti, ai non nati; Eva immagine capovolta di colei che veniva definita «strega», tutta sussurri e grida, tutta piegata nel suo «diritto» di stare nel libro, l’«anima» riversata al suolo, grumi nella terra, fluidi, linfa.

Eva vuole «vedere»: quando canta i Velvet Underground, della sua voce percepiamo il colore, la “direzione”: «[…] Candy says I’d like to know completely what all the souls discretely talk about. I’m gonna watch the blue birds fly over my shoulder. I’m gonna watch them pass me by maybe when I’m older, what do you think I’d see if I could walk away from me». Comprendere con precisione, guardare voli di uccelli al di sopra del proprio corpo, distaccarsi da esso, allontanarsene per guardare da “altre” prospettive: tutta questa fenomenologia della visione riconduce questa che sembra essere quasi un’ossessione latente nel substrato estetico del film al proposito, da parte del regista, di inscrivere la questione della comprensione della realtà e della conoscenza a quella, ad essa strettamente correlata, della percezione del reale, della sua “durata”. Qual è il campo di indagine attinente alla verità? Che cosa è conoscibile e con quali strumenti la realtà può diventare oggetto del sapere? Di quale “realtà” si può discutere: la realtà della «Ragione» o quella della «Fantasia»? E possono, queste due dimensioni, diventare alleate per l’acquisizione della conoscenza? Poiché probabilmente, escluso aprioristicamente ciò che non si vede che con uno sguardo difforme, liminare, questa ragione non può che essere claudicante, monca. Ma la Poesia non è essa stessa strumento di conoscenza? «È come studiare anatomia attraverso una poesia»: non è questo stare “dentro” le cose verità, sguardo sulla vita, sulla natura, su di sé, con precisione chirurgica, avvicinandosi la poesia in questo senso alla scienza (e qui cito Davide Rondoni, Cos’è la natura? Chiedetelo ai poeti), legata ad essa nell’inseguimento di quella definizione che manca ancora, che si avvicina al punto zero di qualcosa che prende continuamente forma? Non è il Cinema il motore di tale forma, attraverso la sintagmatica del montaggio, visione che insegue se stessa, in un continuo smarrimento d’occhi?

Jorge Luis Borges, in una delle sue interviste, dichiarava che «ciò che chiamiamo fantastico, in realtà, è reale, è un simbolo reale […] se scrivo di labirinti, di specchi, della notte, della paura, del male […]. Quando scriviamo del fantastico, ci allontaniamo dal nostro tempo per scrivere di cose eterne. Facciamo del nostro meglio per stare nell’eternità». The Book of Vision è questa notte, la notte del tempo, è ricerca continua di gemme, di frutti che crescono, di stagioni che si avvicendano, labirinto specchiato non per perdersi ma per perdere gli sguardi nel raggiungimento dell’unico Vero possibile: quello dell’ammissione della stratificazione della realtà, della sua complessità, così come della sedimentazione teoretica – e immaginifica – atta a interpretarne le plurime manifestazioni.

 

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