Prima di tutto e soprattutto è l’enorme talento. Un talento capace di coniugare la magniloquenza mainstream hollywoodiana con una complessità di scrittura propria del cinema d'autore più radicale. E il risultato più portentoso di questo difficilissimo equilibrio espressivo continua a rimanere The tree of life. Impresa prometeica, vera e propria cosmogonia universale, afflato di trascendenza che aveva scaturigine dall'immediata contingenza; film generoso, sovrabbondante. Manierista, ma di un maniersimo denso e dolente. To the wonder è la sterile ripetizione di questa maniera, affascinante ma pur sempre ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi della poetica del regista, forse, ancor più elevati a potenza (su tutti il totale azzeramento della costruzione narrativa, della progressione drammaturgica, per lasciare completo spazio alla riflessione spirituale).
Si è di fronte ad una multiformità di tecnica e scrittura che finisce per avere il sopravvento sull’opera, una complessità formale che si riduce in pericoloso compiacimento tecnico. Virtuosismi registici mancanti della capacità di penetrazione della precedente ricognizione. L'amore come necessità dell'Altro, perché è solo in relazione all'altro che si può avere piena coscienza della propria esistenza. È il senso ultimo, ma anche l'unico senso, delle vite degli uomini e delle donne attorno ai quali ruota l'opera (tanto in chiave simbolica che letterale: la macchina da presa di Malick si muove inesausta lungo vertiginose e avvolgenti traiettorie spiraliformi). Un tema altissimo, smisurato, ma che assunto quale unico orizzonte priva i personaggi di reale complessità e completezza. Una "superficialità" a tratti violenta; misogina, se messa in relazione alla figura della donna. Questa riesce a concepirsi unicamente come controparte dell'uomo, assunto a vera e propria divinità di fronte la quale prostrarsi e per la quale rinunciare a tutto, anche ai propri figli. Una ricerca a cui non ci si può sottrarre ma destinata al fallimento. L'Altro rimane un riflesso, un baluginio. Non c'è mai dialogo, confronto. Il film è una continua interrogazione priva di risposta. E questo si riscontra sia contenutisticamente che formalmente. Malick cerca di spingersi oltre i confini del filmabile, prova a cogliere qualcosa che si colloca al di là del visibile con uno strumento d'indagine ontologicamente visivo. Limite e grandezza del suo cinema. Riuscire per mezzo di un linguaggio fenomenologico a restituire qualcosa che va oltre il contingente. Attraverso una magnificenza visiva, un sublime che rischia continuamente di scadere nel kitsch, far intuire la presenza di uno scintillio divino. To the wonder prosegue la riflessione gnostica avviata con The tree of life, la codificazione di una forma religiosa assunta a ideologia totalizzante; una ricerca espressiva che fa però franare l'opera nel baratro di un’aridità emotiva tipica del più sordo manierismo: quello che rimane è solo compiacimento cerebrale.