Come in ogni film in cui viene descritta una comunità chiusa e integralista, il gioco combinatorio fra i personaggi segue l’avvilupparsi del reticolo dei codici e delle meccaniche intorno a una predestinata vittima sacrificale. Appare quindi una vergine 18enne, circonfusa di una luce aurorale che polverosa le accarezza il bianco del vestito, del collo e delle guance, come in un quadro di Monet.
La ragazza è tanto carina, sospira e singhiozza, suona l’armonica e guarda fuori dalla finestra, ma alla fine dovrà adeguarsi a ciò che è stato deciso per lei. Riempire il vuoto suona quindi come un ineludibile comandamento: il dovere di preservare l’integrità del reticolo comunitario quando vi compare una smagliatura diventa un imperativo ad annullarsi per servire il vuoto su cui poggiano le convenzioni.
Più che all’organizzazione di un matrimonio combinato si assiste a una sequela di vari tentativi sulle possibili combinazioni matrimoniali, un esercizio continuo di assemblaggio e smontaggio dei pezzi di un puzzle fino a che il disegno della macchinazione possa comparire, confacente al codice della comunità, composta, nel caso, da ebrei ortodossi (e rappresentata in modo più angosciante e opprimente in un altro film israeliano recente, Eyes wide open). Una comunità maschilista, dove le spose sono facilmente fungibili l’una con l’altra (purché tutte osservanti) e in cui però a prendere l’iniziativa risolutrice è sempre la matriarca (accade pure in È stato il figlio di Ciprì): come a dire che la prima ad accettare la sottomissione è la vittima stessa, complice del proprio carnefice.
P.S.: del resto la regista Rama Burshtein è una fervente ebrea ortodossa newyorchese che, prima di girare questo suo lungometraggio d’esordio, ha prodotto e girato delle pellicole (alcune per sole donne) con il fine di utilizzare il cinema come mezzo per esprimere se stessi nella comunità religiosa ebraica.