Superstar_Recensione_film«La sfera pubblica si privatizza nella coscienza del pubblico che consuma; la sfera pubblica diventa la sfera di pubblicazione di biografie private, sia che essa porti alla luce le casuali vicende del cosiddetto “uomo della strada” o quelle di stars deliberatamente costruite, sia che si travestano con una maschera di privatezza e si rendano incomprensibili per eccesso di personalizzazione sviluppi e decisioni di pubblica rilevanza. Il sentimentalismo verso le persone e il corrispondente cinismo verso le istituzioni che ne derivano con socio-psicologica ineluttabilità, limitano poi naturalmente la capacità di un dibattito critico nei confronti del pubblico potere, quand’anche fosse ancora possibile.»
(J. Habermas)
 

Lo stesso tragitto quotidiano, la solita metro, il lavoro in fabbrica, la sicurezza di una piccola casa, la vita modesta di uno spettatore qualunque; una società senza spettacolo animata dalla reiterata e insoddisfatta riflessione su se stessa, una iperrealtà patinata che sostituisce il grido senza concetto l’incognita e il punto di domanda alla ricerca delle parole.

Se “X” e “?” sono i simboli che denotano la presenza di un vuoto senza appello, lo stato di alienazione quotidiana non viene indagato fino in fondo rendendo questo lavoro di Giannoli una commedia moralizzante, con immancabile lieto fine, laddove sarebbe stato interessante il tentativo di elaborare una “banalità del male” non solo spettatoriale, una riflessione insomma sul senso doloroso e profondo della mancanza di reazione, sullo stato di claustrofobico immobilismo individuale e sociale (reso perfettamente invece nel film di Anderson, The Master) a partire, e non a finire, dalla leggenda che ci vuole tutti irreparabilmente televisati.

Quello che non è stato detto, o meglio, non è stato visto abbastanza è proprio quella resa necessaria del vuoto, l’identità azzerata dalla sovraesposizione dell’immagine, il “dibattito critico nei confronti del pubblico potere” che invece resta imponente nei Cancelli del cielo (1980) e nei deserti-dialoghi di Porcile (1969), rivisti qui a Venezia in splendide versioni restaurate.

In molti film quest’anno si registra un senso di profondo malessere non bene identificato che resta, come il protagonista di Superstar, senza parole che lo riescano a spiegare, (ci) manca davvero l’uso di un linguaggio ipertrofico (alla Pasolini), la resa epica dello scontro di casta (alla Cimino) a dire del vuoto che incombe e che scava intorno e dentro l’angoscia insostenibile della parvenza di una vita, di sopravvivenze minimali.

La vera incognita che non riesce a trovare una risposta convincente in questo film è: qual è la causa dell’obbedienza dei figli ora che il conformismo rivoluzionario di un intero sistema fondato sulla crescita a qualsiasi costo ha dichiarato fallimento?

Che la società contemporanea sia un porcile che fagocita i figli disobbedienti o indifferenti è poi l’inizio di un altro film, quello di Daniele Ciprì che non a caso titola È stato il figlio.