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È possibile girare un film davvero ribelle al fascismo estetico e formale del cosiddetto postmoderno, magari risalendo nel tempo a ciò che vi era prima del cinema, al teatro delle ombre. In O Gebo e a Sombra la finzione è subito palese: dal caos buio antecedente ad ogni creazione vengono fuori mani gigantesche, rapaci, pronte a muovere sulla scena i destini delle figurine, delle quali vediamo, come se al posto dello schermo fosse stato montato sulla quarta parete un telo proto-cinematografico, le loro silhouette, proiettate dalla luce irreale di una lampada ad olio.


Le figure sono ritagliate a immagine dei loro ruoli e i loro discorsi plasmano i personaggi: ecco quindi la madre che si strugge in attesa del figlio che manca da otto anni, poi il marito di lei che si inventa bugie senza fantasia per tranquillizzarla e infine la nuora che paziente tenta di dare un senso a tanto patimento. I personaggi avvertono però presto di essere prigionieri, come se pose e gesti riproducessero la volontà di una forza che li trascende e chi li ingabbia in un unico e lunghissimo sguardo immobile. Tentano allora di affacciarsi al di là dello schermo, sperando che arrivi qualcuno, una specie di Godot, che possa liberarli da loro stessi, ma possono vedere solo chimere: il desiderio non è che una proiezione illusoria dell’anima, sfuggente come un’ombra.

 

Il figlio improvvisamente ritorna, ma a differenza degli altri personaggi la sua origine è al di qua del telo, in quel luogo anticinematografico chiamato realtà dove vuole ritornare a vivere. Non sopporta il peso dell’ombra su di lui proiettata dagli altri personaggi e sparisce di nuovo come un sogno portando via con sé le illusioni con le quali la sua famiglia era riuscita a costruirsi quella falsa innocenza propria di coloro che credono di poter resistere alle contingenze semplicemente tenendole fuori dal loro spazio privato, non agendo e accettando i ruoli che vengono loro imposti. Messa dinanzi alla sua vera natura, la figurina si scuote e, forse per scontare la colpa di non aver mai vissuto, sacrifica se stessa, nel tentativo di sentirsi viva in una sola volta e per un attimo, il primo e unico della sua esistenza.