izmena_2.jpg-500-480x319Un uomo e una donna raccattano indizi, frammenti, situazioni per comporre un’immagine che per metà film è solo suggestionata, suggerita: l’immagine del tradimento, degli oggetti del desiderio che poi si compongono tra loro, s’incastrano e la cui visione è insostenibile, persino per il balcone che dovrebbe reggerli in scena. Una sodomia alla finestra, come quella in Crash, o (solo suggerita, suggestionata) in Tokyo decadence e immancabile qui a Venezia (l’anno scorso con Shame e The invader), con i corpi che si consumano, cercano l’annullamento del peso di sé fino a precipitare nel vuoto orgasmico.

 

Poi il film muta, come un serpente cambia pelle e dismette il lutto (in morte del desiderio) e il risentimento ma si avvita su se stesso nel ritorno delle situazioni, dei frammenti, degli oggetti: cerca (insistentemente, forse troppo) i riflessi su ogni superficie, e rovescia i ruoli per poi confonderli, sdoppiarli, moltiplicarli – col risultato di sfuggire a se stesso e alla regia. Serebrennikov è una vecchia conoscenza dei festival italiani (il suo Playing the victim vinse la prima edizione della Festa del cinema di Roma); qui ritorna con un film incerto, che cerca di guidare appoggiandosi alle citazioni e affidandosi alla luce vitrea dei pomeriggi russi, ma che, un po’ come la sua protagonista, non riesce a concludere: quel che rimane è il ghigno che gli amanti, sollevati dal peso dello stare al mondo, rivolgono all’ipocrisia, alla morale di coloro che restano e che cercano, invano, un riflesso di sé sulla superficie dello schermo.