Partenze dopo l’approdo. Derive fluviali visionarie nell’estrema libertà dell'ignoto mondo amazzonico, dopo l’arrivo portuale in una Ellis Island che diventava costrizione, prigione. The Lost City of Z dopo The Immigrant: James Gray affronta il suo sogno esotico, l’accensione di un film d’avventura (ancora un film “in costume”) seguendo la linea di una fuga prospettica verso l’ignoto, che incarna il solito dissidio grayano tra la realtà che si abita e il sogno che si sente a portata di mano. Il luogo dell’appartenenza (la famiglia, la città, il destino) è lo spazio di una coscienza che sta stretta e la materia del desiderare è sempre lì a portata di mano, intangibile nella sua vicinanza.
Alla Berlinale 67 (inspiegabilmente fuori concorso) The Lost City of Z finalmente si palesa, dopo lunga attesa, in tutta la sua grandezza di cinema sognante e sognato, sospeso tra maestri visionari e ardimentosi (Cimino, Coppola, Herzog...), aggrappato al cinema di Gray come il bisogno di una fuga in avanti, come fosse uno dei suoi personaggi, abbracciato al perimetro esistenziale che gli appartiene eppure sempre proteso verso qualcosa che sta oltre, qualcosa che è al contempo sogno e realtà.
Percy Fawcett, l’esploratore britannico protagonista del film, è il corpo desiderante incastrato nel destino che scorre nel sangue della sua famiglia: ufficiale del regio esercito britannico, condannato a non essere promosso per la lettera scarlatta cucitagli addosso dalla poco raccomandabile figura di un padre non altolocato, cerca l’occasione per fare carriera accettando l’incarico di esploratore dell’ignoto, sospinto dalla Royal Geographical Society in una missione per mappare l’Amazzonia, percorrendo il fiume, attraversando la foresta.
Gray questa volta cerca i grandi spazi, le incursioni nella dimensione del movimento, della fuga in avanti, lui che ha sempre fatto un cinema concentrico, imploso nella struttura dei suoi personaggi, nel loro mondo. The Lost City of Z si apre con una grande caccia al cervo, corse a inseguire, fughe a fuggire, coreografia da tribù evoluta nei rituali dell’alta società di cui Fawcett sarà l’eroe, il cacciatore che prende la preda, anticipando inversamente il destino verso cui si spingerà di missione in missione, sino all’ultima che lo vedrà in Amazzonia assieme al figlio Jack.
In realtà quello che dovrebbe essere un grande film d’avventura è per Gray la smaterializzazione del mito del conquistatore, sia nella versione herzoghiana del folle che insegue la sua visione, sia nella versione in dispersione nell’ignoto. Fawcett è una retta che attraversa spazi sconosciuti al mondo, ma ben noti a lui, un mappatore del proprio sogno che è visionario solo perché insegue il mito, da lui solo visto, della città di Z, dell’ultima civiltà scomparsa da riscoprire.
James Gray insiste sulla percezione del suo eroe come un uomo che cerca la sua elezione, che insegue il contatto col proprio sogno, invertendo nello spazio dell’ignoto quell’istinto, complementare e contraddittorio, di differenza e integrazione che appartiene a tutti i suoi personaggi. La famiglia è per Fawcett lo spazio multiplo di una accettazione difficile, da raggiungere fuggendo verso l’ignoto della foresta amazzonica: l’ombra negativa paterna da cui riscattarsi, l’esercito che lo apprezza ma non intende integrarlo per carenze non sue, la società geografica che lo deride ma ne promuove le esplorazioni, la sua stessa famiglia (la moglie e i tre figli, che a stento lo conoscono) da cui si distacca reiteratamente per le sue missioni.
Fawcett è il classico eroe grayano che sta in uno spazio cui appartiene, ma da cui fatalmente non è accettato.
E il mito della citta di Z, da lui visto e inseguito sino all’ultimo, è l’immancabile chimera in cui Fawcett sta in spirito e corpo, ma che non riesce davvero a toccare, possedere. E il film si accende di continue frustrazioni, trattenuto da Gray in ogni sua parte, come fosse il sogno di un sogno, il desiderio di un cinema che cerca l’assoluto (lo spazio, il tempo, il movimento, l’astrazione) senza volerlo/poterlo davvero offrire. Forse solo il prologo di un possibile dittico, già proiettato Ad astra, il prossimo film di Gray, verso Nettuno, sulle tracce di un padre esploratore sperduto tra le stelle.