Berlinale 67, figure in campo in tre film del Concorso: Final Portrait di Stanley Tucci, The Dinner di Oren Moverman e The Party di Sally Potter. C’è prima di tutto lo spazio, che accoglie le mutazioni in corso, lasciando implodere la materia di cui sono fatti i personaggi nel loro ritrovarsi faccia a faccia con la scena, stretti in un’azione che si conclude in se stessa e si consegna al lavorio dei caratteri, all’evoluzione relazionale della drammaturgia. Il setting è teso a segmentare la teatralità dell’assunto in un impianto filmico che implode nella concretezza del set, non tanto il luogo dell’azione quanto l’azione nel luogo: un’implosione di psicologie che dissimulano la drammaturgia nella fatale convivenza scenica e nella implicita connivenza psicologica. L’esclusione del fuori concede alla concatenazione di eventi lo spazio di un faccia a faccia che gioca con la frontalità tra i personaggi che duellano, ma anche tra scena e spettatore. Il film resta in mezzo, quasi un happening, spesso prigioniero di se stesso, di una drammaturgia da sceneggiatura, di una potenza da (over) acting che si affida alla materia grezza e sublime della prestazione attoriale.


E dunque Geoffrey Rush in Final Portrait, reincarnazione di Alberto Giacometti nella Parigi del ’64, corpo scenico roboante nella ricostruzione del gioco d’atelier con lo scrittore americano James Lord per il ritratto cui si sottopose. Stanley Tucci persegue la sfida di un film in cui la coazione a ripetere coincide con la fissità dell’azione unica e assoluta: la posa. Vietato muoversi, mentre lo sguardo dell’artista coincide col gesto creativo, che poi per Giacometti era un disfare piuttosto che un fare, strati di pennello sul lavoro fatto per trovare il tratto giusto, ben consapevole che «più si lavora su un quadro più impossibile diventa finirlo». Certo, Rivette ne sa qualcosa di più, Tucci si limita a perseguire la funzione caratteriale di Giacometti nella sensazione che tutto coincide con il punto di annullamento tra l’azione del dipingere e quella del posare, il bisogno di non finire nel timore della morte. E sta con determinazione nello spazio sgradevole dell’atelier, con rare incursioni nella Parigi dei ’60, più che altro insistendo nel faccia a faccia amichevole tra Giacometti e Lord, mentre attorno ruotano Diego e Annette, fratello e moglie dell’artista, e Caroline, la prostituta di cui era perdutamente innamorato.

E poi The Dinner, la cena, spazio classico del confronto all’ultimo sangue a sovvertire l’armonia istituita del desco, la convivialità obbligatoria del buon cibo, degli affetti, dell’unione. Quale setting migliore per un film che cerca di manifestare l’attrito tra personaggi e scena, la dissimulazione della simulazione istituita nella ritualità... Oren Moverman ci lavora a partire dal romanzo dell’olandese Herman Koch Het Diner, la cena per l’appunto, che in realtà era già dietro il film di Ivano De Matteo I nostri ragazzi e aveva già avuto una prima trasposizione nel 2013 dall’olandese Menno Meyjes. L’impianto è stretto sulla tensione irrisolta di un evento drammatico che resta a lungo nel non detto, come da schema classico di simile drammaturgia: i rampolli di questa notabile famiglia hanno dato fuoco a un barbone e la cosa sta per venire a galla. Moverman costruisce un setting raffinato, un ristorante di alta cucina che inscena l’arte goumand mentre attorno al tavolo si scatena la tragedia. Niente di nuovo e purtroppo Moverman questa volta sembra fallire il colpo: lui che sa sempre maneggiare con nettezza le scollature tra i personaggi e la loro morale, questa volta eccede in drammaturgia attoriale e banalizza il contrasto con lo sfondo. Eppure il progetto corrisponde a una ratio che lo lega a doppio filo al film precedente del regista Time Out of Mind (Gli invisibili), di cui rappresenta l’ideale controcampo, puntando sulla presenza comune di Richard Gere. Che qui interpreta il ricco politico in carriera, padre dei ragazzi che hanno dato fuoco all'homeless, mentre nel precedente lavoro era il barbone in giro per New York. Lo slittamento di piani visivi e sonori sulla città annegata nella sua indifferenza assordante in Time Out of Mind diventa qui l’impasto cromatico barocco di illuminazioni, arredi, costumi e coreografie culinarie in cui implode il film. Niente di più.

E infine The Party di Sally Potter, anche qui una scena sociale implosa nell’interno familiare di una festa. L’occasione è celebrare la nomina a ministro di una storica militante femminista, ma il tutto si focalizza sul personaggio del marito, che annuncia non solo di avere i giorni contati per un male incurabile ma anche un’amante. La Potter gioca col perturbante spiazzandolo sempre, spingendolo a continue divaricazioni tra la reazione provocata e la verità svelata, insistendo su una drammaturgia da camera (il set è unico) che dissimula nel bianco e nero la teatralità inevitabile dell’assunto. Il ritmo dialogato è sostenuto, manifestando nei continui colpi di scena la capacità di imporre dei repentini cambi di campo alla focalizzazione morale, in una visione delle relazioni legata alla storicizzazione ideologica dei sentimenti, alla mancanza di realtà nelle passioni che non siano puramente ideali.