La Germania delle avanguardie storiche, tra piena, spasmodica espressione dell'oscurità deformante nascosta al centro delle cose, della terra, proprio degli strati di terreno, e astrazione della materia in nome di una purità dei segni; fu il luogo e il tempo in cui si puntualizzò una sorta di sintesi degli slanci estetici e filosofici che da Novalis a Nietzsche avevano caratterizzato la cultura ottocentesca arrivando, appunto, fino agli anni Venti del Novecento, al concetto di Universelle Sprache, fulcro dell'esperienza di un gruppo di artisti intenti a sperimentare le intersezioni, le osmosi tra le varie arti rifacendosi all'idea rimbaudiana di arte totale.

Pittura, musica, cinema, letteratura, diventarono gli ambiti di un'oltranza continua, di un travalico dei linguaggi specifici, alla ricerca di una lingua universale, una lingua di sintesi appunto, che potesse esprimere, in espressioni subitanee, onnicomprensive, eloquenti, l'essenza del cosmo. Un codice, un'ipostasi, un ritmo, come quello evocato, inquadrato attraverso linee, forme geometriche, figure animate in soluzione, dissoluzione, da Viking Egelling, ad esempio in Diagonale Symphonie (1924) o da Hans Richter nei vari Rythmus fino all'orchestrazione delle cose specifiche e varie della realtà e quindi della complessità dell'immagine mimetica in Berlin die Symphonie einer Grosstadt (1927) di Walter Ruttman. Che è un film muto eppure sonante: batte il tempo, scandisce le immagini secondo sequenze ritmiche facendo di Berlino una sinfonia di elementi e di luce, in modo che l'apparire sia musicale, vada a tempo: è il collegamento, la sutura dell'apparire al tempo; anzi si potrebbe dire che è il tempo che assume una forma attraverso l'apparire, attraverso il montaggio ritmico di scene.

Questa esperienza di Absolute film fu fondamentale per tutte le sperimentazioni che si susseguirono da lì in poi nell'ambito delle arti visuali, influenzando anche l'underground americano, soprattutto il cinema di Stan Brakhage che pur avendo a disposizione il sonoro strutturò molti dei suoi film “pittorici” (dipinti direttamente su pellicola) come fossero opere mute e conferendo alla sola successione delle immagini il compito di scandire il ritmo, di formalizzare il tempo, Tarkovskij direbbe “di scolpire il tempo”. Ma mentre quello di Tarkovskij è un tempo per lo più rizomatico, liscio, per dirla con Deleuze, cioè costituito dalla progressione di singoli segni temporali, di segni aritmici che si dilatano e dilagano nell'arco del piano sequenza, che dilatano la materia di cui sono fatti; quello di Brakhage (ma prima ancora di Ruttman e degli altri registi dell'Absolute film) è un tempo striato, ritmato, nel cui dipanarsi si distinguono degli intervalli proporzionali, delle proiezioni matematiche: qui il montaggio, o l'evoluzione dei segni nell'inquadratura, stria il tempo. Il punto di riferimento per questi registi infatuati di venti cosmici, di enigmi, di ipostasi universali (ai tedeschi si possono aggiungere almeno i fratelli Corradini, attivi in ambito futurista) era la musica, arte del tempo e nel tempo, la cui purezza assoluta si misura in astratto, nella carne – tanto rastremata da essere inesistente – dell'astrazione.



Se quelli erano tentativi di conferire la musicalità alle immagini pure, di dare ritmo, voce alle immagini mute facendo leva esclusivamente sulla dimensione figurale, sull'apparire, e ciò guardando all'Universelle Sprache, traducendo lo spirito del cosmo, proprio auscultando i riverberi e le scansioni di questo spirito; a partire dalla fine degli anni Sessanta il kraut-rock (evidentemente chiamato così perchè nato in Germania), proprio riferendosi a questo stesso perno astrale, a questa stringa che tiene insieme le cose (una sorta di teoria delle stringhe) si concentrerà sugli spazi dal punto di vista della musica: immaginerà spazi delineati da spartiti, dal tempo, dal ritmo da cui sono regolati. Un rock per lo più striato: là dove era il montaggio (anche il montaggio interno) a striare il cinema, l'absolute film, qui è soprattutto la batteria che assume un incedere elementare (come la vita binaria degli elementi: spenti o accesi), un tratto inconfondibile, che si tratti dei Neu, tra i pionieri di questo genere, o dei Camera, gruppo berlinese intento a riprendere oggi quella semplicità ossessiva, astrale, spesso in 4/4, che fu appunto del kraut-rock. Tra l'altro le copertine dei loro primi dischi, ad esempio Remember I Was Carbon Dioxite, sono così simili ai fotogrammi dei film dipinti di Brakhage: come nebulose caleidoscopiche, dense di particelle elementari di carbonio, di dioxite, all'origine delle cose ed evocate dall'andatura elementare della musica.

Come un codice morse dettato dalla batteria, punto, linea, punto, ecc., riempito da accordi di chitarra larghi, lucenti, come l'insorgere di una qualche linea eggelingiana che sfolgori all'improvviso nello spazio, il ritmo minimo, algebrico dell'espressione, insito nella cultura tedesca d'ascendenza romantica (ed evoluzione nietzschiano-wagneriana), resiste in molte sperimentazioni cinematografiche e nell'attività di alcuni gruppi musicali legati al rapporto tra immagine e musica. Da una parte c'è un cinema intriso di musica, non necessariamente un cinema d'arte – anche se in effetti è nel cinema sperimentale, libero da vincoli narrativi, che questa simbiosi si concretizza appieno –, che non può fare a meno della dimensione armonico-ritmica: si pensi ad esempio al dream-cinema francese che fa capo a Gonzalez e Mandico, o al Refn di The Neon Demon, tutto scandito dalla partitura elettronica di Cliff Martinez, o a un film come Verão Danado del portoghese Pedro Cabeleira (di cui peraltro ho scritto fin troppo), innervato com'è di techno, che è la versione elettronica del kraut. Cioè c'è qualcosa, un'identificarsi continuo dell'immagine nella musica, come l'esigenza dell'immagine di diluirsi, scomparire in accordo, ritmo, che mi porta a immaginare che l'origine dell'icona sia in un suono, che la vicenda incessante delle forme sia iniziata con un suono.

Dall'altra parte, cioè sul versante propriamente musicale, ci sono i gruppi che praticano un rock esplicitamente ispirato all'archetipo kraut: in Germania, appunto, i Camera (i più fedeli alla linea primigenia dell'Hallogallo) o di recente i Sei Still giunti alla seconda ristampa del loro disco d'esordio, a distanza di solo un anno dalla pubblicazione presso Fuzz Club Records; mentre più inclini alla variazione sul tema, Sula Bassana (tra psichedelia, kraut ed elettronica), i Flying Moon in Space ecc.. Ma il seme del kraut-rock, del ritmo algebrico che detta l'incedere del segno, è stato piantato anche al di fuori della Germania, tanto da poter abozzare una sorta di mappa, di territorio del kraut, vista anche la fondante imprimitura deterritorializzante, spaziale di questa musica: in Cile lo si ritrova nei Follakzoid (un kraut ossessivo: ossessione del ritmo elementare, quasi privo di armonie); in Giappone soprattutto nei Minami Deutch; in Svezia negli Och (in versione elettronica, che ricorda Heldon); negli USA nei Trees Speak, i quali frammentano la continuità del kraut classico in brani più brevi, all'improvviso sincopati; in Inghilterra gli Oscillation o i Beak> inclini alla decostruzione. È la perpetuazione del movimento nel tempo, il tentativo di formalizzarlo attraverso i segni concatenati in una continuità ossessiva: qualcosa di assoluto, assolutizzato a fronte del brulicare relativo del caos.

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