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Cut (A. Naderi) – Orizzonti
«Maestro Kurosawa, il cinema sta morendo. Io voglio sopravvivere».

Incolonnati in una smilza fila per la Sala Grande con i nostri fieri accrediti legati al collo e le poche ore di sonno ad appesantirci le palpebre. L’aspettazione sconsolata che ci faceva affermare con una certa sicurezza che le due di pomeriggio “volgono già il giorno verso sera!” (QuasiModo) si declina in un’attesa di sogno (che fa stringere la mano di Ghezzi e lascia teorizzare tattiche sulla disposizione dei posti a sedere - in prima fila a destra c’è più cinema -; la corsa per i posti centrali, quelli dietro la nuca di Naderi; e Müller nel suo impeccabile abito che sa di mondi lontani…) prima della visione.

Arriva presto il capolavoro che ci fa dimenticare della stanchezza, dell’agognata carbonara, dei pantaloni bagnati dal nubifragio e restare con gli occhi sgranati nell’impressione addizionale delle immagini che (ci) alleggeriscono le palpebre per tutta la notte: ho avuto la mia quantità di sogno, si fa a meno anche del riposo in questa festa di nevrasteneci.
Cut è l’indefinibile per definizione, il senso pieno delle immagini che rimandano a loro stesse senza bisogno di niente altro per essere quelle che sono - e sono appunto (indefinibili). Un’accumulazione di volti (gli spazi hanno senso solo se contengono foto, proiezioni, foto di occhi sgranati sulle proiezioni), un’accellerazione di sovrimpressioni sulla carne a rimarginare le ferite; uno stato costante di veglia, di condanna alla sopravvivenza, nonostante i “tagli” mortali.
“Il più profondo è la pelle” (Valéry), e in questa profondità si fa a meno delle opposizioni, anzi i contrasti si fondono nella composizione dell’inquadratura, nella ricerca dell’immagine perfetta quella che fa del film un’opera d’arte. Ecco allora spiegato l’indefinibile: la vita del giovane cinefilo si (con)fonde con la un’elevazione potenziata di altri infiniti racconti di vite; soggetto (il protagonista) e oggetto (il Cinema) coincidono nella disperata affermazione della loro sopravvivenza: ogni film è Storia del Cinema, la pietra tombale l’ipotesi di un nuovo cominciamento, l’ Immagine è creata tutte le volte che viene vista e ogni volta che a vederla sono occhi diversi.
Il  cinema produce realtà, dalla realtà si crea l’immaginario (indiscernibilità tra realtà e finzione); ogni raccordo che taglia o congiunge (“e”) diviene (sovra)impressione identitaria (“è”)… e il cinema si salva sempre da una morte certa sfuggendo appunto alla sua definizione.