Il terzo pezzo su Cut, il terzo uomo che entra in scena di sbieco (pensando più a Totò che a Carol Reed) come il terzo elemento che nell'inquadratura ha ragion d'essere solo in rapporto agli altri due, e che pure ha la sua funzione prospettica. Sebbene in Cut il terzo elemento nell'immagine abbia valore fortemente simbolico: il pacco regalo con i resti del fratello morto; il sacco da box, indolente e ipnotico come un impiccato, presagio del massacro di là da venire; la poltrona vuota, segno del potere impersonale e ancor più invincibile grazie alla sua assenza.
Non si riesce a trovare alcun difetto nel capolavoro di Naderi, persino per quello zoom a schiaffo sui grattacieli metropolitani si trova la giustificazione, immerso com'è nell'impeccabilità formale della visione. Non poteva essere altrimenti: Naderi è al cospetto dei suoi numi tutelari del culto cinematografico, non può deluderli, deve reggere l'inevitabile confronto. Omaggia il primo maestro (morto), venera il secondo (mortissimo), cita il terzo (ancor più morto); evoca immagini in bianco e nero, fantasmi che danzano e ruzzolano e muoiono. Eppure è attraverso l'elencazione, lo sgranare i rosari del cinema che la morte viene rimandata, come se nella ripetizione vi fosse la mistica delle salmodie bibliche, e nella riproduzione del reale ci sia la sua beffa al tempo.
Il cinema è stato dato troppe volte per morto, eppure è lì che incassa i colpi e resta in piedi. Un fantasma che cammina, che poi prende velocità, si moltiplica, uno solo ne contiene cento - e forse Cut aspira ad essere l'ultimo di questa cavalcata, il centunesimo della carica che rompe la chiusa perfezione circolare del numero tondo.