Per quanto si sia portati a pensare ai personaggi solondzani come a delle propaggini dello stesso autore, in realtà il regista, a differenza di Abe, protagonista del suo ultimo lavoro, con Dark Horse ha dimostrato di riuscire finalmente a lasciare andare personaggi, temi e situazioni così a lungo "coccolati" nel corso del suo percorso filmografico e cominciare un nuovo discorso.
Per Solondz era diventata quasi una sorta di cifra stilistica quella di far cortocircuitare tasselli della propria filmografia creando continui rimandi tra l’ultima regia e i lavori precedentemente realizzati.
Certo, ritroviamo il personaggio di Selma Blair. Miranda di Dark Horse non può non far venire a mente Vi di Storytelling, soprattutto quando fa riferimento alle sue irrealizzate velleità letterarie. Ma l'impressione è che, se anche questo rimando c'è, sia meno influente che in passato.tesco,
Il regista rinuncia alla coralità per tornare a concentrarsi maggiormente su un solo personaggio, Abe per l'appunto, giovane uomo bloccato in una sorta di limbo, una tarda adolescenza protratta oltre quelli che sarebbero i consentiti limiti anagrafici. Volontariamente interdetto all'esercizio dei cosidetti diritti e doveri legati alla maggiore età. Collezionista compulsivo di fumetti, dvd ed action figures. Continua a vivere con i propri genitori, finge di lavorare all'interno dell'azienda paterna con la complicità di Marie, segretaria tacitamente disponibile a risolvere le sue continue mancanze e inosservanze. L'occasione di svolta è rappresentata da Miranda, apatica e abulica coetanea, incontrata durante una cerimonia nuziale.
Il film attraversa l'esperienza di Abe evitando la progressione lineare; Solondz preferisce avvoltolare i sensi dello spettatore attraverso una narrazione enigmatica, continuamente inframezzata da inserti onirici. Ma la dimensione del sogno non si limita a contaminare quella della realtà, piuttosto la avvolge completamente determinando così una costante condizione di incertezza. Ci ritroviamo del tutto incapaci di stabilire se all’interno della narrazione esista una zona non attraversata dall’allucinazione, e impossibilitati a circoscrivere con certezza chi stia sognando chi. Proprio per questa struttura a rebus il film fa pensare a Le charme discret de la bourgeoisie di Buñuel e ci porta a leggerlo anche come operazione citazionista. A supportare questa interpretazione altri rimandi, come ad esempio gli incontri che Abe ha con Marie che richiamano quelli tra Benjamin e Mrs. Robbinson di The Graduate. Anche il dialogo tra loro, quando lui dichiara di aver già avuto relazioni con donne più mature, sembra rifarsi a quello tra i protagonisti del film di Nichols. E poi Christopher Walken straordinariamente keatoniano nella sua imperturbabile inespressività.
Sebbene Solondz attinga ad un immaginario ben preciso, per mezzo del quale caratterizza i suoi personaggi, non bisogna pensare a questi in termini caricaturali. Li colloca all'interno di un chiaro universo di riferimento; ma le merci, le etichette, che riempiono la loro esistenza non vanno visti come unici dispensatori d'identità. C'è dell'altro. Ha troppo affetto, in particalare per il suo protagonista, per ridurli a ridicoli stereotipi. Questi, pur costretti perlopiù ad affrontare, anche in modo doloroso, il lato faticoso della vita, non trasmettono mai un sentimento d'arrendevolezza, di compiaciuto nichilismo, ma al contrario una strenua volontà di resistenza quotidiana