«Il cinema finisce con Kotoko. D’ora in avanti vedere film sarà come assistere a una retrospettiva» (Luca “Quasimodo”). Un giudizio estremo per il capolavoro di Tsukamoto: cinema portato allo stremo, un cinema della crudeltà che suscita violente reazioni emotive nello spettatore, i cui nervi angosciati vibrano a lungo usciti dalla sala.
Kotoko è videoarte, deflagrazione di suoni e immagini triturati e scagliati direttamente nel centro nervoso e lì conficcati, sanguinolenti. Della convenzionale struttura filmica non restano neanche le macerie, ciò che rimane è un evanescente biancore, catartico come forse lo era il teatro greco: i tabù vengono svelati, l’indicibile detto, l’irrapresentabile visto. Sullo schermo l’immagine filmica incontra il suo doppio, ovvero l’immagine che si viene a formare nella saletta cinematografica situata nella scatola cranica, come una sorta di fantasma allo specchio, da una parte ciò che vediamo e dall’altra ciò non vogliamo o temiamo di vedere. E una volta liberati dall’angoscia del tabù, viene il desiderio (senza vergognarsi di passare per sentimentali) di lasciarsi ammaliare dal canto struggente di Kotoko, sperare in una sua (nostra) salvezza, che neanche l’arte (autodistruttiva e crudele) possono sostenere.
http://www.youtube.com/watch?v=PkaWnEC2N38&feature=channel_video_title