dangerousSi era certi che nessuno, meglio del Profeta della "nuova carne", si potesse confrontare con la dovuta dimestichezza e senza eccessivi timori reverenziali con la vicenda che ha per protagonisti  Gustav Jung, Sabina Spielrein (sua paziente, amante e collega) e Sigmund Freud.
Chi meglio di Cronenberg, sempre attento nell'osseravre l'uomo nei suoi tentativi di manipolazione dell'esistente, avrebbe potuto gestire il cortocircuito umano e professionale tra il padre della psicanalisi e il suo più brillante, ma allo stesso tempo "indisciplinato" discepolo?


L'affrontare di petto la psicanalisi sembrava il più che ovvio approdo per un autore che nel suo percorso filmografico ha costantemente interpretato le sperimentazioni scientifiche (fatte operare sia a livello somatico che sessuale) come dei "cancri creativi" (e in A dangerous method Freud, invitato negli Stati Untiti a presentare le sue nuove teorie, non a caso parlerà della psicanalisi come di una "peste" [lettura molto vicina a quella propostaci da Artaud che vedeva l'emergenza pestilenziale come il momento della rivelazione della presenza del male nell’uomo. L'autore de Il teatro e il suo doppio metteva in luce la funzione rivelativa dell'epidemia, in quanto capace di mostrare il collasso morale, ciò di fronte a cui tace la ragione, di fronte a cui la volontà di ordine, di struttura, di senso è costretta al silenzio]).

La psicanlisi, per altro negli anni della sua fondazione, coincide con l'idea di Scienza cronenberghiana: pericolosa, anche mostruosa, ma allo stesso tempo benefica nel momento in cui tenta di potenziare le facoltà umane. Una Scienza  che pone l'individuo a confronto con sé stesso, con ciò che di perverso alberga in lui, con i limiti che la mente crea attorno al piacere, ai tabù e alle potenzialità nascoste.
Sembrerebbe un'operazione già perfettamente riuscita. Eppure qualcosa non funziona.
È come se Cronenberg sia quasi rimasto inibito di fronte a personaggi così ingombranti, che si sia sentito in dovere di cercare di mettere diligentemnte in scena tutto il loro spessore intellettuale. E che questo gli abbia impedito di focalizzarsi con la dovuta incisività su un preciso aspetto della vicenda. Nel film ci sono tematiche, due su tutte, riconducibili alla sua sensibilità registica: il menage à trois, dalle fosche tinte melodrammatiche, che vede coinvolti, in maniera più o meno diretta i tre protagonisti; e l'ossessione che i due colleghi-rivali hanno per il carteggio, per la matericità grafica della parola, per la parola che si fa corpo. Nessuna delle due riesce però a trovare piena espressione, ardono senza mai divampare, tutto rimane soffocato da un incessante diluvio di dialoghi.

Ormai del tutto discostatosi dalle regie affettate e ricche di visioni orrorifiche che hanno caratterizzato un'ampia parte del corpus della sua filmografia, Cronenberg adotta una messinscena essenziale e raggelata ma tutto sommato piatta, che rinuncia purtroppo all'ermetismo dei suoi lavori migliori, apologhi suscettibili di molte interpretazioni.