terraferma“Venite adoremus. Dominum”

È così, avanti a destra c’è più cinema. Provate a vederlo Terraferma di Crialese da questa prospettiva, provate a fermarvi in questo lento annegare: dall’isola si vede tutto un mondo nuovo: la vertigine del viaggio che consuma le speranze, le aspettative alimentate dall’attesa di arrivare e vedere se quello che si dice è vero, se perdersi in questo frammento è possibile, se si può sopravvivere alla realtà invece che tuffarsi a occhi chiusi da una barchetta stipata di turisti sculettanti sulle note di Maracaibo.

Un viaggio commovente, ai limiti della sopravvivenza; dalla proiezione si esce con gli occhi che bruciano per la salsedine e con la pelle tirata dal sole. Fuori piove.

Rifletto sulla ripetizione della visione, che ti allena a vivere in assenza d’aria, con lo sguardo in profondità, poco sotto il livello del galleggiamento.
Se il film di Crialese è spalancato  nell’orizzonte che porta verso terra, quello di Olmi resta attorcigliato al centro della terra: non si esce, nemmeno le rondini tornano a fare le acrobazie nel cielo primaverile. Ma si tratta sempre di una visione dal basso (o dal dentro), soffocata, contorta, che ogni volta rimanda a uno spazio più angusto: dal barcone verso la costa, dalla costa verso il fondo del mare, dal fondo del mare sotto terra; poi, dall’interno di una specie di chiesa dentro le tende di cartone dentro l’urna perduta sull’altare; e dal Lido nella sala, avanti a destra, dall'obiettivo dentro lo schermo: sempre più dentro, negli occhi dei sopravvissuti, dove c’è l’Aperto.
E mentre le ingenue speranze affondano - ché hanno la stessa pesante consistenza delle cose e quindi non possono che andare a ingrassare i pesci digeriti nei pancioni - quegli occhi raccontano sempre la stessa Storia che anticipa tutti gli inizi; un racconto portato dal mare perché lì c’è scritto che “la miseria è l’inizio della fine” di chi s’ingrassa sulle morti che non vuole vedere.
Lungo il viale per tornare a casa, si discute animatamente sulle scelte degli attori, sulle carenze recitative di questo o quel personaggio. Mi viene in mente Solondz, i suoi amatissimi disadattati; mi dico che forse è meglio così, meglio che i ruoli siano un po’ ingessati in un realismo verghiano, e i clandestini buoni e le forze dell’ordine cattive. Non possiamo non sentirci anche noi degli esiliati che la provvisoria sicurezza delle onde non conforta; si tornerà sulla terra ferma come tante madonne senza salvatore.
Anche dio in fondo ha conosciuto la solitudine dell’ultimo respiro.