Un film giocato tutto sull’ostentazione di contrasti visivo-sonori e su un eccesso di semplificazione dei caratteri e dei ruoli dei protagonisti: la distanza dei genitori dai figli si riflette sulla incommensurabile differenza dei due mondi; la luce accecante del primo fa sempre da contrappunto con la claustrofobica oscurità del secondo; i grandi giocano a mascherare l’ipocrisia che si addice ai loro ruoli di sorveglianti, educatori, dottori mentre i bambini sono impossibilitati a uscire dall’interpretazione di una rigida violenta gerarchia che li vorrebbe adulti.
Esile la trama (tratta dall’omonimo romanzo di Stefano Massaron), i personaggi scadono spesso nello stereotipo: Filippo Timi che ricorda nella sua follia un Carmelo Bene esiliato nella Fortezza Bastiani; Stefano Accorsi impegnato a esorcizzare la propria infanzia attraverso i giochi con il figlio; Valeria Solarino drammaticamente chiusa nel ruolo di un’insegnante alternativa, non a caso la sua materia è Arte; Valerio Mastandrea che non riesce ad affermarsi da adulto e resta il leader bambino di un’infanzia che non dirada le sue ombre. Eccessivo l’uso delle musiche che avrebbero la funzione di enfatizzare determinate sequenze, ma che non riescono a evitare l’effetto di impacchettamento ruffiano di certi filmoni televisivi.
In compenso è buona la regia di Gaglianone, interessanti alcune scelte stilistiche (la sequenza di Filippo Timi che sbircia attraverso le lenti un orizzonte che pur diventando prevedibile non impedisce un interessante riverbero allo specchio; le corse sfrenate dei bambini nei campi; la tangibile visibilità della paura; lo sdoppiamento fiabesco della figura del drago-lucertola a due teste, padre-bambino), nel complesso però il film è come bloccato in superficie da una spessa patina di ruggine.