louise_wimmerUn fantasma s’aggira per l’Occidente, lo spirito del capitalismo. Louise Wimmer potrebbe essere un eponimo contemporaneo, un revenant del modernismo decadente, la tipica parabola pseudoamericaneggiante dell’eroe che contando sulla sola sua virtù riesce nell’impresa.



La protagonista che dà il nome al film è una benestante borghese (il termine desueto non sembra qui ridicolo) che perde in un colpo status sociale, famiglia, denaro. La causa non è importante, tanto più per l’atteggiamento della donna che affronta la caduta con fatalismo: non mette in discussione i valori e i meccanismi che l’hanno estromessa dalla società ma si affida ad essi per rientrarvi. Primo valore indiscusso è l’individualismo, il dover contare solo sulle proprie forze. Louise non si lascia andare, si prende cura del corpo e dell’aspetto fisico; da brava “manager di se stessa”, con previdenza e parsimonia gestisce il poco che le è rimasto; non chiede aiuto a nessuno e nei momenti di crisi si affida solo al suo amor proprio. La narrazione fredda (nella fotografia) e schematica (nel montaggio) pare avere come modello una tabella contabile, nelle cui caselle Louise salda i conti con tutti gli ostacoli e gli imprevisti che le si parano dinanzi. Fino a che la vicenda si stempera nell’immancabile luce del mattino finale, quando la nostra eroina finalmente risolleva di un primo gradino la propria condizione: ma, ne siamo certi, è solo per darsi il necessario slancio per raggiungere il secondo, per risalire fino a quando ne avrà le forze, per darci a bere che la favoletta della mobilità sociale e delle sue regole siano ancora valide.