Siamo abituati a considerare il montaggio cinematografico come un esercizio di associazione fra le diverse sequenze che compongono il film: il regista armeno Pelešjan invece ingaggia la sua lotta col tempo nella distanza che si viene a creare fra le inquadrature, nello spazio che le separa, per misurarne la durata nella linea di sutura che c’è fra loro o intrappolarlo nel fermo di un’immagine.
Il titolo del suo cortometraggio, Seasons of life (da cui poi il documentario di Pietro Marcello si diparte guardingo, come per non importunare il maestro), potrebbe suggerire una sorta di circolarità del tempo, perso nei giri dei suoi ritorni. Pelešjan invece filma la realtà per come si dà nel suo scorrere, nel movimento naturale della materia: si alternano così le transumanze, i matrimoni, le frane, i guadi, i cieli, tutto un fluire di bestie, feste, pietre, onde, nuvole: e in mezzo loro, gli armeni, che si lasciano trascinare dalle cose fino a (con)fondersi con esse, refrattari a qualsiasi metafisica, che preferiscono aggrapparsi a una pecora piuttosto che a una religione, che scelgono il silenzio quieto della natura in luogo di quello angosciante di un qualche dio.
A Pietro Marcello non resta che adeguarsi al non parlare di Pelešjan, alla sua inamovibile diffidenza nei confronti della parola (non dei rumori o della musica: i suoi film non sono mai del tutto silenziosi), assecondarne lo stile ruvido e minimale (bandito persino il treppiede), affidare i propri pensieri a un sussurro di sottofondo, arrancando dietro l’immagine – che cerca di dire il tutto senza parlare per nulla.