DELBONO«Non ho altro modo di conoscere
il corpo umano che viverlo,
cioè assumere sul mio conto
il dramma che mi attraversa
e confondermi con esso».
(Maurice Marleau-Ponty)



È il dolore ad esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.

Pippo Delbono parla di sé e di noi impostando il discorso attorno a quell'unica realtà certa su cui può contare, il proprio corpo, fattosi negli anni corpo di dolore, irrimediabilmente segnato dalla malattia. Del resto, come già dettoci da Artaud, «chi dice carne dice anche sensibilità. Sensibilità, vale a dire appropriazione, ma appropriazione intima, segreta, profonda, assoluta del […] dolore, e di conseguenza conoscenza solitaria e unica di questo dolore» (Artaud 2003, p.22).

Amore Carne è un disperato, quanto riuscito, tentativo di definire il politico attraverso il privato. Delbono elabora il lutto della Storia filtrandolo attraverso il proprio vissuto personale. Si penetra in una dimensione dove l’Io dell’autore diventa altro, facendosi spettacolo, dandosi interamente all’interlocutore.  Delbono non esita a fare del proprio corpo un territorio da esplorare e mettere in relazione con il mondo esterno, un mezzo espressivo attraverso cui dare forma a poetiche affermazioni di esistenza. Questa necessità di esporsi, interpretabile anche come una disarmante dimostrazione di sincerità, lo porta a vivere senza filtri la propria sieropositività.
Il film si apre sulle immagini in soggettiva del regista mentre si sta sottoponendo al test dell'HIV. Già certo degli esiti, decide di testimoniare il tutto per far emergere gli atteggiamenti ipocritamente tolleranti di chi, non personalmente coinvolto, è però costretto a confrontarsi con la malattia.

Determinante per la riuscita di questa documentazione è lo strumento di ripresa. Delbono, dopo l’esperimento de La Paura, torna ad interfacciarsi con la realtà per mezzo di un videofonino, oggetto così piccolo e così poco ingombrante che gli permette di arrivare in luoghi e situazioni come persona e non come cameraman; un oggetto domestico che, a differenza delle macchine da presa professionali, non intimorisce nessuno, e che proprio per questo gli può permettere di abbattere qualsiasi inibizione con i soggetti ripresi, aprendo così a momenti emotivi particolari che andrebbero altrimenti persi. Un apparecchio che, proprio per il fatto di chiamare prepotentemente in causa il corpo del soggetto filmante, gli dà modo di forzare la situazione, riprendendo l’evento che contemporaneamente contribuisce a creare.

Il vidofonino gli permette di rapportarsi alle situazioni in modo "amatoriale", secondo l’accezione che Stan Brakage dava al termine, ovvero nel senso di vicinanza, di empatia ai soggetti ripresi. Perché Amore Carne  non è un’esibizione narcisistica di sé, ma nasce dal confronto con gli altri, con “le vite degli altri”, come viene più volte ripetuto nel corso del film. Incontri più o meno famosi. Con sua madre; con amici, come ad esempio il compositore e violinista Alexander Balanescu, Marie-Agnès Gillot, étoile dell’Opéra di Parigi, Irène Jacob, l’artista Sophie Calle o l’attrice Marisa Berenson; con sconosciuti estranei.

E poi con Bobò, più di 40 anni passati in un manicomio, sordomuto e affetto da microcefalia. Figura chiave della poetica di Delbono per il quale l’arte ha spesso una relazione con l’handicap. Per il regista c’è un’arte che nasce da una mancanza, una deficienza, uno squilibrio. Comunque da una ferita. E Bobò, con la sua esperienza di crisi, di disequilibrio, di sofferenza, dimostra questo, come in fondo ci sia una possibilità straordinaria di bellezza. Questo bisogno di confronto si riscontra anche nella scelta di offrire il proprio vissuto, in un’emozionante messa a nudo di sé, sempre però filtrandolo ed arricchendolo con influenze letterarie ed artistiche. È evocata Pina Bausch. Ripresi versi di Pasolini, Elliot, Rimbaud. Anelli d’una social catena coraggiosa della verità, con cui resistere alle superbe fole del secol superbo e sciocco.


Bibliografia:


Artaud A. (2003): Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino [I° ed. in it. 1968].

 

Le tue parole diventano come tua madre. Tu diventi la madre delle parole, intervista rilasciata a Uzak.it

(riprese di Saverio Barile aka Wave70)

http://www.youtube.com/watch?v=gnITdIb1wec