In questo cabotaggio circuitale, andirivieni di un chilometro a passo sostenuto, che sono le giornate alla Mostra, mentre le biciclette vanno a passo d'uomo su uno sfondo di capanne da spiaggia, non mi ero mai accorto che alla finestra della sala stampa (sempre lei: luogo di osservazione/riflessione) non si vede solo un qualche gabbiano puntuto, a volteggiare in mezzo ai filamenti delle nuvole e fino al bordo delle inferriate, come scrutando questi omini (inutilmente) formicolanti, chini sulle tastiere; ma anche le cime degli alberi, già un po' gialli, ondeggianti, che adornano e intristiscono le aiuole della cappella in cui si celebra il funerale di Frédéric (Louis Garrel) in Une été brûlant.
Un cinema in via di estinzione, esatto eppure sfrangiato, ardente (Bresson); parlato ma allo stesso tempo pieno di sottintesi (Rohmer), i quali si dilatano via via, assorbendo tutto il tessuto del film. La sua natura è quella dell'oggetto decorato sobriamente o decadente, antico e fiero: divani stinti, terrazze di piante pensili, o pareti spoglie, un poco scalcinate; e i suoi personaggi sono artisti, ragazzi idealisti, malinconici e (perciò) fragili, pronti a suicidarsi, non appena hanno perso Angèle (Monica Bellucci) e così la loro tranquillità, che li faceva dipingere, scrivere, recitare, pensare. Garrel è essenziale perchè il suo cinema è l'ennesima conferma che l'io può espletarsi e confermarsi solo nella misura del suo esprimersi, del suo fare, immaginare. Il cinema è questo, ancora una volta: enorme complesso di immagini entro cui (non) si risolve l'enigma della vita, ventaglio caleidoscopico ridotto dalla "produzione" seriale, dall'economismo, giurisdizionalismo, a mera comparsa, e comunque futile epifenomeno del contemporaneo.
Ed è normale allora che la società sia quella mostrata da Lanthimos in Alpis, pantomima, riproduzione sgangherata della (in)cultura di massa: da Bruce Lee a Prince, a Elvis Presley; e allora vedi le signore, gli uomini di mezza età, i ragazzoni menci, confusi alle Britney Spears (le adolescenti con smalto al sapore di fragola) venuti apposta da chissà dove, anelanti al divo, cioè al nulla, che gridano - scorticandosi la gola, con gli occhi in lacrime (alcuni si strappano i peli del pube lanciandoli nell'aere odorosa) - all'epifania di Gwyneth Paltrow, mentre lei magari vorrebbe solo scorreggiare in quel momento, lasciare una grande scia di merda in dono agli emeriti sconosciuti (e lì il pater familias a raccoglierla come cimelio), perchè poi siano i menager a venirne, come sempre, a capo, con la loro ignoranza, la loro crapuloneria da vomito, la loro violenza.
Une été brulant mano a mano che si immalinconisce, mentre le cose continuano a mostrare la loro nudità e il loro silenzio, svolge la trama delle psicologie e dei vissuti dei personaggi disperati di cui è fatto: l'amore, la possibilità che esso resista, o che finisca, la solitudine orrenda o l'inquietudine per l'arrivo di un bambino, la serenità di una passeggiata per strada quando fa sera, la sorpresa per la comparsa del nonno morto anni fa, che non può che accettare le risposte del nipote suicida, che sta per morire. Le parole di questo splendido film dicono la loro stessa potenzialità, basilarità di silenzio e di pallido vento, nel momento in cui tutto si smorza, si spegne. Mi sono portato appresso questa malinconia per tutto il giorno, pensando a Frédéric, ad Angèle, al loro naufragare e all'ineluttabilità del naufragio. Quando la nave si squassa e gli amanti finiscono in mare, spesso si muore.