La morte a Venezia è questo muto grondare delle cose, la loro assenza bagnata che ti pone in lontananza, ti dilaga, ti polverizza. Anche le immagini che ha filmato Saverio (operatore di Uzak, artefice di immagini, ecc.) al suo primo giorno al Lido, il montaggio che ne ha fatto, dice questo sbiadirsi dei passi, come un annuvolarsi, uno smarrimento letto in fondo a una pupilla.
Alle 9 entro nella Sala Darsena per Shame, di Steve McQueen che ho amato al tempo del suo Hunger, fenomenologia dell’autodistruzione nel presente per poter ritrovare l’infanzia. Ma qui non è la stessa cosa, perché a fronte di un inizio folgorante che lascerebbe presagire lo svolgersi di una variazione (video)artistica sul melò (del resto McQueen viene dalla videoarte), il film pur mantenendo un livello sufficiente di espressività sembra sfilacciarsi in alcuni punti del finale.
Ma emergono l’inquietudine per “la dipendenza” dal pornografico, resistente alla fine, nonostante i tentativi di emendazione di Brandon; e quei movimenti di macchina, quelle simmetrie dell’inquadratura, quelle splendide carrellate che in Hunger costituivano già una scelta stilistica molto consapevole (elegante) ed efficacemente sondante (degli escrementi sui muri, del sangue dei pestaggi, del corpo scavato dalla fame), lì dove in Shame non riescono o non vogliono penetrare fino in fondo la materia, i coiti, le masturbazioni.
Fuori imperversa un’umidità funesta, che mi entra nelle ossa passando per la nuca (ma tant’è: è una vita che la cervicale mi perseguita), chè aspetto di entrare a vedere Terraferma di Crialese. Non che mi aspetti molto dal cinema italiano, se non da Olmi (Fuori concorso), ma Crialese in passato ha dimostrato di voler cercare (e cesellare) un suo personale “temperamento” e uno stile, così aspetto appoggiato alla balaustra captando i discorsi e le esorbitazioni di qualche grasso collezionista di giocattoli (ha scovato un He-man raro su ebay a 450 dollari, e lo irretisce, lo compra subito).
Il flm si sofferma ancora una volta (come in Respiro e Nuovomondo) sul mare, tanto da farne alla fine una bella astrazione per via di un campo lunghissimo sul peschereccio che lo percorre, alla ricerca di uno spiraglio per arrivare alla terraferma. La rappresentazione di Crialese è in linea con gran parte dei film visti finora, cioè la critica del contemporaneo spettacolare e sperequativo, che ha intaccato pure l’insularità, le ataviche leggi del mare, ora tradite e svilite da Nino (Beppe Fiorello), imprenditore scaltrito (eppure affettuoso verso il nipote orfano), impegnato a dare un’altra immagine a Lampedusa (non quella legata alla pesca, tanto meno agli sbarchi dei clandestini), così eletto rifugio di un turismo massivo e borghese, tutto racchiuso nei costumi (e consumi) da bagno firmati e gli occhiali da sole sfoggiati da una orrenda falange di abbienti bagnanti. Le scene più belle sono proprio quelle che, in perfetta alternanza, passano dalla tragedia degli immigrati all’intrattenimento del turismo, condotto da quella che è una delle figure più importanti della società postmoderna: il cosiddetto animatore, che ora smania (con la sua ciurma di gioventù analfabeta) al ritmo di “Maracaibo”.
Il pomeriggio lo passo a ciondolare da un chiosco all’altro, sbevazzando con chi capita, rosicchiando olive, ciancicando patatine, in mezzo all’andirivieni delle persone e delle proiezioni, delle loro proiezioni sull’asfalto, ombre oblunghe, sventolanti, gesticolanti. Alle 19 mi scuoto e con ancora un po’ di amenza in corpo rientro nel ricettacolo della Darsena per assistere a Dark Horse di Todd Solondz. L’inizio è folgorante: una turba di ballanti a un matrimonio ebreo, che si scatena (letteralmente, come se fosse a Broadway) in coreografie eccessive, agli antipodi dell’imbarazzato e sedentario sostare di Richard e della stasi inaridita, annichilita di Miranda, intenta a sviare il corteggiamento impacciato dell’altro, grasso, stempiato, collezionista di giocattoli. In questo suo nuovo film Solondz percorre il farsesco, l’evidenza della pantomima (come quella straripante del ballo iniziale) alleggerendo il peso specifico dei personaggi, rendendoli simili a quei pupazzi che il protagonista colleziona, personaggi di plastica che compaiono all’improvviso, snocciolando la loro identità di vuoti manichini da telefilm: e in effetti spesso l’ingresso di Richard in casa dei genitori viene commentata da quelle risate registrate, provenienti dal televisore imperante nel tinello, di fronte al quale vegeta l’autismo della madre e del padre (apparente, perché poi a lavoro lo stereotipo dell’ebreo errante/rampante viene fuori puntualmente e spietatamente). Ma devo ancora comprendere se questo nuovo Solondz, che immette una grande quantità di onirico (in funzione grottesca) mi piaccio o no.
Ma la giornata è stata piena di sollecitazioni: torno a casa pestando le foglie sul lastricato, rimuginando su questa enorme messe di immagini che spesso si attorcigliano, si confondano, mi persuadono.
(video di Saverio Barile)
http://www.youtube.com/watch?v=LzkNve1Va6g