Garrel sembra voler portare alle estreme conseguenze l'immagine-tempo, svincolando questa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo. Compone le inquadrature come se fossero delle nature morte, facendone un'unità a sé stante, letteralmente indipendenti, autosufficienti dal contesto. Muove la sua macchina da presa per una Roma volutamente fotografata al di fuori degli abituali tracciati turistici, dal luccichio ingessato delle immagini da cartolina.
Luoghi anonimi fissati su pellicola con magistrale fotogenia. Ogni elemento scenografico è bloccato in una ieratica fissità, quasi si trattasse di un trompe l'oeil. Non sarà un caso l'aver scelto come protagonista femminile Monica Bellucci, tra le più statiche/statuarie attrici in attività. Impressione che sembra trovare conferma nella maniera in cui il regista ci presenta l'interprete, distesa su letto, nuda, in tutta la sua matronale e plastica bellezza. La Bellucci è Angèle, attrice e moglie di Frédéric (Luis Garrel), pittore bohemien, più per posa che di sostanza. La condizione d'agiatezza permette loro, oltre che di vivere come in una sorta di tempo sospeso, totalmente al di fuori e al di sopra delle contingenze materiali, di mantenere, nella casa romana presa in affitto, una coppia d'amici, Paul ed Elisabeth, per il gusto della loro compagnia. Questi saranno spettatori/testimoni della deriva della loro realzione.
Ancora una volta deux Amants Réguliers, che ripercorrono puntalmente tutte le tappe del disinnamoramento. Garrel rinuncia al bianco e nero ma non alle sue lunghe inquadrature fisse che incorniciano personaggi così narcisisti da essere incapaci di far affiorare i loro stati d'animo se non attraverso un'ostentata partitura di posture calibratamente costruite. Lo stesso vale per le loro parole, per gli scambi di battute, mai spontanei, sempre soppesati, ragionanti non in funzione d'esprimere un reale travaglio, ma l'effetto che questi possano esercitare sull'interlocutore. Tutti aspetti già rintracciabili nelle precedente regia. Ma se in quel caso rappresentavano il valore dell'opera qui ne sono il limite. L'idea di raccontare le tensioni del '68 come sospese nei fumi dell'oppio si era dimostrata la più efficace soluzione per confrontarsi con un tempo mitico, così storicizzato ma allo stesso tempo fuori dalla Storia. L'odierno non non ha nulla di mitico. E di certo non possono esserlo i personaggi che Garrel ha deciso di portare in scena: indolenti, vittime di sè stessi, affetti da una sorta di delirio solipstico che li porta ad uno sterile ripiegamento ombelicale. Non si può provar che fastidio per individui votati ad una melmosa esistenza. C'è bisogno d'altro. D'autori che abbiano, per dirla alla Pasolini, una «disperata passione di essere nel mondo», e soprattutto che dimostrino coraggio per «restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo».