Se proprio devo tenere in vita il diario - questa farragine in preda ai mutamenti atmosferici (oggi è scesa una cappa d’afa, una diarrea di luce attraverso i palazzi), agli spazi cosparsi di aghi di pino e di gambe cinesi, all’impressione, l’orrore del ritorno - quando magari mi piacerebbe riposarmi almeno un’ora, immergermi nella pace del nostro monolocale di via Zara, che odora di silenzio di là dai muri, nel giardino frusciante di natura morta, di rampicante, di cancello cigolante, e poi dimenticandomi nel sonno), allora devo iniziare dalla fine (o quasi), da Wuthering Heights di Andrea Arnold, non perché sia una storia di infanzia e di perdite (dell’infanzia, e dell’amore), ma perché ciò è espresso da blocchi di esperienza rigogliosa e ruvida, eterea e terragna.
Anche Sokurov diceva prima in conferenza stampa dell’importanza dello scenario naturale, o comunque dello scenario in generale, perché se il cinema è immagine (delle cose), se il cinema è cosa, allora le cose devono esprimersi, espandere i propri effetti sensibili, e i soggetti (dentro il quadro) parlare attraverso le cose, anzi le cose dettare al soggetto la visione (mi vengono in mente, ovviamente, Bataille e Klossowski).
Perciò Andrea Arnold mette in scena una sinfonia senza fronzoli, sfarzosa nella sua espansa caligine, nel fango, gli abituri ai cui vetri svolazzano le falene; le enormi brughiere, regno dei cervi volanti, i ragni, gli scarabei; il cielo, spazio nuvoloso dell’inseguimento degli uccelli, metafora di quello che accade ai due protagonisti innamorati, che si inseguono, si toccano nei giochi fanciulleschi, per perdersi/ritrovarsi poi. Un dire/vedere delle cose (anche volutamente manieristico), che raccontano/mostrano la tragedia degli amanti, in un’aria da pieno Romanticismo, già proposta del resto (sebbene in una forma meno uggiosa e meno marcata) dalla Jane Campion di Bright Star.
Ma tornando indietro penso a A simple life del cinese Ann Hui e alla (bella) diatriba (via sms) con l’amico Lorenzo, secondo cui il film ha il ritmo del classico. In effetti il racconto scorre fluido e senza la minima sbavatura, intorno a figure definite perfettamente, personaggi teneri, scorci di una Cina sfaccettata, e di un presente che non manca di alludere al suo passato. Quello che mi fa restare perplesso è il conservatorismo di fondo, che non elimina (non critica) la subalternità della domestica rispetto al suo padrone, ma la trasforma in riconoscenza e affetto (dei membri della famiglia abbiente) nel momento in cui lei comincia a morire.
E la morte qui, ancora, si esprime mediante quel senso di privazione, di solitudine che ti prende quando s’esce dalla sala e ci si ritrova nel formicolare delle vie, dei chioschi rossicci con molto ghiaccio, dei passaggi sotto gli alberi, tra una sala e l’altra, una mancanza che è tutt’uno con la foschia che ora spiana il mare, con quell’ombra tumorale che sta sopra i tetti e che all’improvviso causa un turbinare di minuzzoli, di scarti, di foglie.
Tant’è che ti viene voglia di riparo, di spiraglio, in mezzo a questo enorme plesso di ingranaggi e piattaforme basculanti, che mentre sussultano o ondeggiano, sfiorandosi, sfregandosi, sgretolandoti, grondano, come quand’ero ragazzo e trovai riparo in un’osteria, ferma nel suo crepuscolo, nella sua stufa a legna che regolava lo stillicidio di cose mute, dei vetri appannati, dei viandanti ebbri, sonnolenti; il tavolino era antico, e uno ci sonnecchiava sopra, di fianco a un bicchiere di vino.
Ermanno Olmi è tornato a quel luogo chiuso, riparato, in tenera e inquietante ombra, in cui il santo bevitore si protendeva verso il mistero, e vi ha costruito un Villaggio di cartone che è, insieme al Faust di Sokurov, il capolavoro di questa Mostra. Un film artefatto e astratto che proprio attraverso l’evidenza della finzione svela le incongruenze collettive, la loro immanenza di violenza, e gli struggimenti individuali di fronte al trascendere delle cose, dei libri che lo trasmettono, delle leggi che lo deturpano. Tutto si svolge in una chiesa dismessa (e posticcia) che diviene rifugio di un gruppo di immigrati clandestini, difesi da un prete, da un medico, da un ingegnere di colore, prima che riescano a partire, evitando a stento il rastrellamento dei soldati. A questo dramma si intreccia quello privato del parroco tormentato per la chiusura della sua chiesa, che poco a poco si appassisce nel letto della sacrestia, mentre ricorda di quando era giovane e del mistero della sera, e poi nel mistero della chiesa sentiva arrivare le rondini. Nel muto rimbombo dell’andito, seduto sui gradini, guardavo gli uccelli confondersi col suono, o solo con l’essere delle campane, e per sequenze e intermittenze, mi dicevano che ero un randagio, ero un contagio.
http://www.youtube.com/watch?v=zSgM0tWpFj4