Non sarebbe del tutto esatto affermare che i testi che compongono Ó sono i resti di un libro più grande, solo perché i frammenti "scartati" vennero pubblicati più tardi, in O Mau Vidraceiro. Né sarebbe sufficiente, secondo Garramuño, parlare di un libro ibrido: in questo caso ci sarebbe una mancanza di specificità ricercata, profonda, che genera indistinzione tra la lettera e l'immagine (tra l'opera plastica di Ramos, che si serve di parole e l'opera "scritta" che sfonda il "letterario").
In primo luogo, la condizione di resto non è, soprattutto qui, soggetta a una chiara successione di eventi, quindi, sarebbe legittimo pensare che i resti precedono l'opera (la questione del paraergon e del paratesto); in secondo luogo, è proprio la suddetta indistinzione ad essere il vero tema, il nucleo di senso, di tutta l'opera, dove corpo e ambiente, voce e parola, si confondono, oltre a una continua allusione a un possibile riordinamento temporale dei processi biologici, ambientali e psichici.
Questo libro sviluppa una serie di riflessioni sulla morte, la decomposizione, il tempo. Anche se non è possibile definire un soggetto unico, un narratore o una voce, poiché la prospettiva da dove si scrive va mutando, è comunque chiaro che c'è un soggetto, anche se plurale, afflitto dalla vecchiaia (il libro si apre e chiude con la descrizione della perdita dei capelli e di altri segni), che cerca rifugio «nelle immagini [...] nel linguaggio» e ci invita ad essere spettatori della nostra propria decrepitezza, della nostra fusione indeterminata con la materia. Si installa, fin dall'inizio, una delle tesi che attraversa il libro, la materialità della scrittura, la possibilità di un linguaggio corporeo, viscerale anche, «la natura sarebbe nostra come una grammatica viva, un dizionario di muschio e di fango».
Questa idea viene continuamente rivisitata e messa in discussione fin dal momento in cui viene enunciata, quando l’autore afferma che forse sarebbe meglio un linguaggio che alluda solo al dolore, confrontato con la necessaria limitazione del linguaggio che fallisce dove è più necessario, e che anche se fosse fatto di materia vivente, sarebbe, come questa, condannato a metamorfosi. Il soggetto di Ramos immagina un mito in cui «un grande cataclisma – un terremoto, un meteorite o un incendio – avrebbe forzato una rivoluzione nei segni, ma davanti a questa ipotetica trasformazione continua a pensare che sarebbe successo «se avessimo sfidato il cataclisma e costruito un linguaggio con i resti antichi, calcinati», facendoci ventriloqui, interpreti de «la propria cenere, in terra deserta» per poter parlare con «pezzi e frantumi» su un paesaggio coperto di lava e morte. Viene così descritto l'arco completo della crisi personale, della lingua e del mondo.
La presenza della morte è il motore di questa riflessione, come mostra il secondo capitolo "Tumuli" ispirato dalle immagini della tomba dei Brion, disegnata da Carlo Scarpa, che si apre affermando: «A poco a poco andiamo dimenticandoci di loro, dei nostri morti, che affondano nella terra o sono bruciati, o scagliati come pesci nel mare». Appare così il tema dell'oblio e della violenza sui corpi, che permeerà a tal punto il testo che gli stessi tumuli che servono per commemorare, evitare l'oblio, finiscono per «aprire la strada alla dimenticanza», gli oggetti delle persone amate sono prelevati e riutilizzati e alla fine tutto può essere un memento mori: «La terra che nasconde la materia, il fuoco che consuma e il mare che affoga sono i tre sacerdoti primordiali del cadavere e da essi deriveranno miriadi di nuove categorie di tumuli: un tronco, lo scafo di una barca, una nave, un'enorme piramide, la cavità di un totem, un delicato portale, gruppi inumati contemporaneamente, con o senza viscere, ceneri sparse o conservate in un candeliere», oltre ai nomi tradizionalmente incisi sulle tombe.
La convinzione radicale che ogni tumulo «muore e si consuma» si potrebbe associare con un sentimento di raccoglimento simile a quello del celebre Urn burial di Thomas Browne, ma i giri aneddotici, un certo umorismo nero, e, naturalmente, l'assenza di trascendenza accoppiata con la decomposizione fisica dei corpi, lo separano da quella visione.
Lungo questa linea si iscrivono i passaggi intitolati “Ó”, dove si insiste su una certa discussione a proposito della prevalenza della voce o del testo, e dove la figura delle ceneri diventa ancora più rilevante come metafora della condizione materiale di cui sopra, che da un lato la lega positivamente al reale, a un al di là del linguaggio convenzionale, e dell’altro ci ricorda anche la sua finitezza, il suo divenire polvere. Il soggetto del primo “Ó” è un tumulo, un'urna che cammina «sulle ceneri dei piedi fatti di cenere, le ceneri delle suole, le ceneri dell'asfalto, le ceneri delle foglie, quando si assaggia la polvere grigia che si deposita su tutto», «una bella maceria, un relitto» che urla sforzando le tonsille, «nella cenere dell'ultimo giorno», «fatto microfono [...], pentola di cherosene incendiato, per il ragazzo assassinato da un altro ragazzo», c’è un grido per ogni cosa (in ogni cosa c'è un grido e questo grido è di sabbia, di latta), «bruciando la pira della fuliggine della memoria». La figura claustrofobica del tumulo si ripeterà in diverse forme (matrioska, trenini, carceri), a volte in parallelo con gli animali (sempre potenziali vittime di confinamento e predazione, le più grandi paure del soggetto), per esempio nel brano sulle galline – che paragona agli umani – o la storia del villaggio che è rimasto senza uccelli per aver chiuso la piazza.
Un altro movimento interessante del libro è l’inversione del logocentrismo che lo conduce ad una critica dell'archivio, immaginando un'operazione che inverte le gerarchie nelle tassonomie di registro: «vogliamo trasformare il grido aspro della materia e dei formati in un chiasso numerato», «combinazioni impreviste, la strana grammatica che unisce un mucchio di polvere a strisce di velluto» che fa della cenere non il resto senza sostanza, ma il tassello fondamentale del registro della vita: «resti di polvere, capelli che si sono intromessi è tutto quello che lasciamo che si depositi nei nostri cassetti», «un cambiamento nella struttura della catalogazione stessa, facendo, per esempio, della principale solo la più fugace e remota delle caratteristiche», «il tono notturno di una casa di città, la calce senza vita di una parete, la calugine grigiastra di un cane meticcio, per somiglianza cromatica inizieranno una catena di somiglianze», in un'ascensione dal più piccolo al più grande (e un tentativo di ordine attraverso il disordine).
In verità, «la confusione e il disordine sono ciò che resta della promessa di armonia, rapita per caso, incluso in un cifrario di polvere e vento» e a questa trasformazione segue, dopo il passaggio che fa delle centrali idroelettriche tombe giganti, la possibilità di una rivoluzione tecnologica «di polvere e non di fuoco, di fango e non della ruota, di vino e non di pergamena, di grido e non di discorso».
La polvere forma, come in Pompei e come sognò Bataille addosso alla Bella Addormentata, una cappa protettiva, che paradossalmente, protegge del passaggio del tempo che simboleggia: «La polvere è ovunque, depositata da un respiro casuale e costante, come piccoli cadaveri geologici modellati dai millenni», «La stessa disintegrazione della materia in parti minuscole coprirà quelle che sono ancora intere, conservando i capelli, polvere, nodosa corteccia, unghia, crema».
Più avanti si immagina un tumulo/ mausoleo (pensiamo alla revisione che fanno di questo tema del museo como tomba, cenotafio, Adorno e Hal Foster) vuoto, “un museo dell'oblio" che inverte la logica museale tradizionale non solo perché si conserva per dimenticare (idea di archivio e anarchivio), ma perché viene preservato quello che viene considerato non importante «ogni affamato, mostruoso, imbecille, avrebbe il suo nome e storia scritti sullo spesso strato della polvere accumulata». Questi rifiuti saranno posti in un museo vuoto per anni «celebrando l'oblio tra le pareti nude», «lasciando
il progetto architettonico in stato di latenza» e collocandolo, circondandolo di vuoto, «un edificio vuoto» che accentua la condizione latente dell'intervallo (cf. Dorfles). Questa patina di polvere che copre e protegge le cose è chiamata, nel quinto Ó, una «sillaba cenerentola» che copre le fotografie dei morti con «la brace repentina del suo quasi oblio».
Nel capitolo 17, con l'elogio del caprone (un capitolo a parte è il soggetto profondamente etero-normativo del libro), per il suo valore giustamente resistente alla trascendenza, si realizza la congiunzione più chiara con l'attitudine al disastro che propone il libro: «mangia eretico, muore bruciato, ma ride di chi lo brucia [...] Il caprone ci ride in faccia». Di nuovo la polvere protegge, ma con piena consapevolezza della sua provenienza dal disastro ecologico e planetario: «la polvere si deposita su tutto, gettando il sudario della sua materia sottile, uniforme e inevitabile, spegnendo il brillo di ogni superficie e inumando tutto ciò che ancora si muove», «come un enorme Mercoledì delle Ceneri, residuo materiale della sua sottomissione (la polvere) e la punizione per l'antico disordine (le leggi del mondo fisico)». Il capitolo si chiude facendo un esplicito memento mori e alludendo a una natura “esausta", in lacrime, per il disgelo e l'inquinamento, ma «i disastri sono in realtà ciò che si ha di più intimo e proprio, il vostro sonno è un disastro».
Dopo altri accenni di tono crepuscolare (che annuncia la scrittura di «lunghi saggi sulla morte della sera»), o nostalgico (tutto il passaggio sull'infanzia e la TV), e un interessante riflessione sulla visione satellitare e zenitale come sguardo oppressivo, il libro continua insistendo su quello che ha definito come la «Regione calcinata della lingua» come modo di mostrare l'oblio, il passare del tempo (che ossessiona il narratore, immaginando pièce teatrali lunghissime che ricordano Cage).
C'è una vertigine, centripeta (autoreferenziale o meta-riflessiva nel migliore dei casi), narcisista (il capitolo “Allo specchio" e il passaggio precedente sulle donne e la loro madre, in un possibile esempio di Edipo irrisolto che si connette con la Polvere di Antigone) in cui la catastrofe è tremendamente personale, colpisce il corpo, e la devastazione della vecchiaia è vista come la fine del mondo in quella che sarebbe una nuova versione della patetica fallacia di Ruskin, ma dove proprio la distruzione e il disastro non solo corrispondono allo stato d'animo circostanziale del soggetto, ma a uno stato che appartiene ad un mondo al collasso.