Qualche anno io e Luis Cámara ci trovavamo sulle rive del fiume Paraná. Ad un certo punto, ci siamo fermati su una collina guardando il fiume, con l'intenzione di indagare, attraverso il contatto con il paesaggio, in che modo potevamo dialogare con la poesia di Juan L. Ortiz. Cominciammo a pensare al film che avremmo girato qualche mese dopo, La orilla que se abisma. Era un pomeriggio di primavera e il sole lasciava macchie brillanti sul fiume. In lontananza, quasi un punto nell'immensità dell'acqua, un pescatore controllava la sua canna da pesca. Sulle rive, i verdi avevano già naufragato, durante quel periodo dell'anno, in un gran numero di sfumature.
Il giorno era bello, la luce e i verdi erano belli. Ma io non ero a mio agio. Luis lo percepì e mi chiese se c'era qualcosa che non andava. Provai a spiegargli l'inquietudine, ma non ci riuscii perché in quel momento non sapevo cosa la stesse provocando. Quell'inquietudine, una specie di disagio, durò in me anche quando andammo via. Fu qualcosa di improvviso, scollegato da avvenimenti precedenti; non me l’ero portata dietro, avvenne in quel luogo e in quel momento. Solo l'altro giorno, rivedendo il materiale, ho capito: in lontananza si sentiva un uccello; emetteva una specie di breve grido, periodico. Quel suono, quasi nascosto, compresi, era quello che azionava la mia sensibilità, impedendomi di percepire il paesaggio e la bellezza come una totalità confortevole, piacevole.
Potrei citare altri esempi, esperienze di diverso ordine che hanno una costante: la percezione di qualcosa di incompleto, qualcosa che stride o non si adatta, qualcosa che si scollega e si tende. Gli esempi potrebbero essere presi dalla vita, ma anche dal cinema o dalla letteratura. Libri o film che sono l'espressione di un mondo in tensione, lontano dall'asepsi dei racconti innocui; lontano dalla bellezza congelata, statica. Non parlo del tema (anche se a volte è inevitabile), né della trama, ma dell'esperienza e della percezione. Quello che voglio dire è che il mondo si presenta lacerato. Ciò che intendo per lacerazione (rasgadura) non si trova mai sulla superficie degli enunciati, non è l'immagine di una crepa, non avviene come interruzione del linguaggio letterario o cinematografico.
Della lacerazione non si parla; essa si manifesta, a volte in modo inatteso, azzardato; a volte in modo incomprensibile. Nel mondo lacerato si perde la comodità, l'illusione della completezza. In lontananza, un uccello, che non ricordavo fino al giorno successivo, che non percepii fino al giorno successivo, ma che era lì, e che emetteva un breve grido, periodico. Questo tipo di manifestazione è a volte anche retrospettiva, misteriosa, dell'ordine del caso, dell'universo dell'inaspettato.
A volte penso che il primo movimento della concezione di un film sia uno stato di disponibilità davanti al mondo. Uno vive con la sua sensibilità e le sue idee, ma dovrebbe accettare, all'inizio, una sorta di perdita di controllo. Guardare il mondo con gli occhi ben aperti, disobbedendo a ciò che abbiamo imparato, fa parte di una decisione, di un lavoro con se stessi. Allora forse il mondo si manifesterà. A questa manifestazione – di diversi ordini, sensibile o intellettuale, metafisica o politica – che rompe gli occhi fossilizzati, che mette in crisi le conoscenze apprese, che denuncia le apparenze, possiamo dare il nome di lacerazione.
La lacerazione, per la vitalità con cui irrompe, è affettiva, in prima istanza, e ideologica nella continuità cosciente di tale stato. È affettiva per la crisi che scatena nella sensibilità. È ideologica nella misura in cui attraversa, inaspettatamente, l'insieme dei saperi, gli strati sovrapposti di saperi articolati nei discorsi e nelle immagini precedenti, e le trasforma in un campo di tensioni. Il sapere che ne deriva è nell'ordine della verità, sì, ma molto lontana da ogni certezza. Non ci troviamo più di fronte ad una bellezza da cartolina né ad una conoscenza univoca del mondo ma di fronte all'esperienza dei saperi delicati, dirompenti, sconvolgenti.
In questo senso, uno dei problemi della realizzazione di un film (dei film che mi interessa vedere e fare) è come filmare l'esperienza dello strappo; come fare in modo che l'enorme insieme di scelte linguistiche e di strategie di ripresa che significa realizzare un film difenda e recuperi, per quanto possibile, la percezione di un mondo lacerato e lo traduca in una nuova esperienza per lo spettatore. Perché se il primo movimento riguarda la disponibilità di fronte al mondo, il secondo è costruzione. Il narratore nordamericano Raymond Carver parla di letteratura, ma la citazione vale la pena per riferirsi al cinema e a ciò che cerco di descrivere: «La definizione di V.S. Pritchett di un racconto è un po' intravista con la coda dell'occhio, al passare.
Notate la parte di intravisto in questo. Poi il baluginio che prende vita. Il compito del narratore è quello di investire il baluginio con tutte le sue capacità». Non è possibile elencare l'enorme quantità di risorse, narrative e poetiche, del cinema. Sono tanti e diversi – nell'ordine della struttura, del punto di vista, del montaggio, del rapporto immagine-suono, della costruzione dei personaggi, delle relazioni che il montaggio propone, per esempio – che mettono costantemente in discussione, anche i limiti e le frontiere delle decisioni con cui si lavora. Nominare alcune di queste risorse costituirebbe un atto sterile perché sempre, anche nelle sue combinazioni, ogni racconto è una nuova invenzione.
Quello che credo è che la scelta dei dispositivi narrativi e poetici ha a che fare con l'intenzione di proteggere, dar conto e mantenere nel tempo ciò che si è intravisto. Cioè, ha a che fare con il desiderio di rendere disponibile nel racconto un'esperienza vicina all'esperienza originale. Questo cinema basato sull'esperienza è viscerale, inquietante. Possiede come unica verità la dissonanza, l'impossibilità; ci mette di fronte all'idea del fallimento. Il fallimento è fin troppo possibile, è troppo vicino. A volte quella verità si manifesta in un frammento, una sequenza o un piano. Ma tutto ciò che lo circonda è la strada che ci porta al bordo dell'abisso dove il film ci guarda e ci interpella. La lacerazione esiste solo in questo insieme: sono sicuro che c'è un unico corpo possibile che la ospita. A volte il regista ha ragione e, all'improvviso, nella sottigliezza della rappresentazione, in modo inaspettato e misterioso, un'immagine si trasforma in presenza: ci guarda e ci rende vulnerabili, di nuovo umani.
Testo tradotto da Marañas. Escritos sobre cine. Verpoder, Buenos Aires 2021. Si ringrazia l’autore per averci permesso di tradurre il testo inedito in italiano.