In un’intervista intitolata significativamente Travail-amour-cinéma, Godard rivela: «Gli amici ogni tanto mi dicono: eppure il cinema non è la vita... Ma in certi momenti può sostituirla, come una fotografia, come un ricordo. E poi, io non faccio una tale differenza tra i film e la vita, direi anzi che i film mi aiutano a vivere. Ecco perché c'è anche la vita nel titolo del film».

Immaginiamo allora una serie di didascalie, magari di color rosso e poi blu. La prima potrebbe essere “Si salvi chi può”, che è anche la prima parte del titolo del film di Godard del 1980, Sauve qui peut (la vie). Poi una serie di variazione sull’abusatissima relazione tra cinema e vita (come accade nella seconda parte del titolo del film di Godard): “Il cinema e la vita”. “Il cinema è la vita”. “O il cinema o la vita”. “Ho il cinema, ho la vita”; “Né il cinema, né la vita”. La congiunzione diventa identità, la scelta, possesso, poi, negazione. Che significa però mettere cinema e vita nella stessa frase? Che significa montare insieme cinema e vita? Se davvero questa “cosa” che è il cinema è lo strumento più efficace per catturare quell’altra cosa che è la vita, fondamentale, in questa presa o messa a fuoco, è proprio quello che, della vita, il cinema “manca” (come si manca, appunto, una pallina con una racchetta – non a caso Daney e Godard parlano o mettono in scena il tennis dentro uno scritto sul cinema o dentro la sequenza di “vita di coppia” di un film) oppure si presenta senza volerlo, come un’apparizione non pianificata: ecco perché Lumière, il cane macilento che attraversa il film La sortie des usines è bello come la fanciulla luminosa de La Ronda di notte di Rembrandt. Perché ci restituisce qualcosa che fuoriesce dalla rete del pianificato, e si manifesta come incontro fortuito. Viene in mente, en passant, che Stan Brakhage (forse il cineasta che meglio di tutti ha lavorato su questo scarto tra cinema e vita come esperimento e mancanza) in Sirius remembered fa tutto il contrario: trasformerà il passaggio del randagio Lumière in un altro passaggio, quella della decomposizione del corpo del suo cane morto (in maniera accidentale come in maniera fortuita era stato filmato il cane nella vue dei fratelli Luce) mentre “attraversa” il corso delle stagioni.

Immagine mancante o apparizione, cambia poi davvero molto? Non si tratta, in entrambi i casi, di qualcosa che crea un vuoto, una specie di sincope? nel primo caso, quello che manca viene comunque suggerito, in maniera incosciente, grazie a un’economia delle immagini che diventa potlac (è quello che Raul Ruiz chiamava il secondo film, che non si vede, creato dallo spettatore); nel secondo, il cinema intravede per un attimo qualcosa che non avrebbe dovuto essere visto ma che gli scappa via comunque (ed è inutile, a quel punto, ribobinare il film mille e una volta: quello che si è creduto di vedere, come la bella passante di Baudelaire, se n’è andato). “Mancato”, in ogni caso: mancare con il piano meticoloso che ci fa pensare che sia tutto sotto controllo mentre invece la vita ci scappa di mano come le immagini davanti allo schermo, la ferita sul fianco del transatlantico è già aperta, il suo tragitto rettilineo pregiudicato, e, quindi, si salvi chi può, la vita o il suo simulacro.

Montare cinema e vita, fare del cinema la propria vita, mettere la propria vita di contrabbando (per usare una frase di Debord) dentro il cinema, è quello che accade in tre film usciti nel 2024: Esperimenti e variazioni sugli ultimi giorni dell’Umanità (E. Ghezzi, A. Gagliardo), Relampagos de critica, murmullos metafisicos (J. Bressane, R. Lima), C’est pas moi (L. Carax). A cui bisognerebbe aggiungerne un quarto, Critique de la separation (G. Debord, 1961) che aleggia su tutti e tre. E poi, naturalmente, c’è Godard: il cinema e/o la vita; la rappresentazione e/o il documento. Si salvi chi può. La vita e/o il cinema? È davvero possibile salvarli entrambi? Proprio Godard ci aveva suggerito di usare il cinema, soprattutto hollywoodiano perché più di tutti ha riscritto gli eventi-situazioni-relazioni in forma di racconto, come se fosse un documento della storia “grande” (ma il cinema stesso è storia grande perché viene proiettata) il cui contenuto latente era un documento presente troppo presto per essere riconosciuto come tale (guardiamo L’Espoir di Malraux, 1937, e pensiamo alla guerra coloniale in Algeria, 1954-’62). Finzione e documento. Rappresentazione e realtà. E il loro scivolamento e aderenza costante.

Il film di Gagliardo e Ghezzi inizia subito con un’immagine capovolta: la cinepresa rovesciata con il volto di Ghezzi al contrario, come il tarocco del Matto o l’impiccato di Villon che dice «sono felice di», e poi il taglio con il mare aperto. Che fare delle immagini? che fare della vita? Che fare con il cinema, in un film di montaggio dove, come nel film di “origine” Gli ultimi giorni dell’Umanità di cui monta alcuni degli écarts, il cinema è dappertutto, ma, a differenza del primo che si caratterizzava proprio per queste continue immissioni di sequenze cinematografiche nel film di una vita (le riprese amateur dello stesso Ghezzi), non si vede praticamente mai la sequenza di un film?

Ci sono, però, una serie di “interventi” di Enrico Ghezzi, secondo una idea benjaminiana di montaggio di citazioni parlate, che appartengono soprattutto a Fuori orario che ci mostrano che se un film è parlato (come recita il titolo di un magnifico film di Kiarostami), del cinema si parla. Il cinema è inteso, proprio perché assente come immagine ma presente come immagine narrata, una forma ancora più intima e nello stesso tempo collettiva, come la biografia di una vita che non abbiamo vissuto. Qualcosa di simile accade nel film di Bressane Relampagos de critica, murmullos metafisicos (titolo meraviglioso, che modifica una frase di Pessoa) anche qui, a differenza dell’opera precedente, colossale (come lo era Gli ultimi giorni…) O longo viagem do omnibus amarelo che conteneva un gran numero di filmati “familiari” del regista brasiliano montati insieme alle immagini del proprio cinema, qualsiasi riferimento all’autobiografia sembra abbandonata. Bressane – e Rodrigo Lima suo montatore e collaboratore da Cleopatra (2007) – sembra vogliano comporre una specie di biografia del cinema brasiliano legata all’idea di esperimento. “Esperimento, quindi sono”: la parola esperimento ha un grandissimo valore in un testo di Haroldo do Campos, un autore fondamentale per Bressane (insieme realizzarono il dittico Galaxia Albina y Galaxia Dark, film ispirati al poema omonimo del primo), convinto che solo l'esperimento – e il pericolo connaturato in esso – contenga una possibilità di chance.

Il risultato è una biografia dell’elemento sperimentale nel cinema brasiliano, come lo stesso Bressane aveva delineato in uno scritto seminale intitolato proprio O experimental no cinema nacional e che terminava con la frase famosa «Noto que nosso cinema ou é experimental ou não é coisa alguma».

Ma forse le cose non stanno esattamente così: attraverso la storia del cinema del suo paese Bressane non può fare a meno di parlare della propria: e non solo perché inserisce numerosi frammenti dei suoi film, ma perché il film inizia e finisce con due sequenze che rifilmano o riutilizzano un documento di vita per farne la sequenza di un film. La prima è quella di un arrivo (che è quello del cinema, nella ricostruzione di una sequenza perduta). L’ultima, di una scomparsa (della vita che però sopravvive, perché si tratta di mostrarne sempre A Agonia).

Le due sequenze di Ghezzi e Gagliardo, in un certo senso, parlano della stessa cosa, ma al contrario: di una mutazione (del cinema, in una conversazione con un cineasta legato agli stilemi dell’horror film) e di una scomparsa (di un fantasma cinematografico, di cui si inseguono le tracce come se fosse stato vivo).

La prima sequenza è un breve e densissimo dialogo con John Carpenter sul futuro del cinema (un po' come aveva fatto Wenders nel suo Chambre 666). Ghezzi parla di una mutazione antropologica nella produzione-fruizione di immagini e Carpenter risponde (non è campo e controcampo: vediamo solo l’autore di The thing, in primo piano, dentro una stanza d’albergo) che «adesso è lo stesso, ma più veloce»; e «per me mutazione significa crescita. Sta semplicemente crescendo» (e pensiamo che Cronenberg avrebbe risposto probabilmente allo stesso modo, magari sottolineando cos’è che cresce, un corpo estraneo e tumorale, vertiginosamente estraneo dentro l’estraneità radicale delle nostre viscere). Ghezzi allora, con una delle sue formidabili idee fatte di immagini, aggiunge che per lui, «il cinema non si trova oltre noi, è solo una delle tante cose che ci mostrano come ci sia qualcosa di possibile in noi» (per questo allora, cominciamo a sospettarlo, si possono unire fra loro vita e cinema. Perché l’una e l’altra sono, per così dire, com-possibili), qualcosa, aggiunge, «che non conosciamo ancora» (è l’elemento sperimentale del cinema, che mette in crisi qualsiasi ipotesi di Imitation of life attraverso le immagini), «perché il cinema, con la sua abbondanza di informazioni, ci fa pensare a un’altra velocità, non una comunicazione umana fatta per noi, non segni, ma qualcosa che funziona già in un altro senso».

La seconda sequenza afferma quindi come il cinema è possibile riaffermarlo proprio quando sparisce, come vediamo nella “spedizione” di Ghezzi nell’isola di Lisca Bianca, dove Antonioni aveva girato l’Avventura. Ghezzi si trova in una situazione simile a quella raccontata da Julio Bressane davanti a un’altra isola, quella di Stromboli, che il cineasta brasiliano, come racconta nel suo testo Giornata di gloria, aveva visitato insieme a Edoardo Bruno. Bressane racconta il percorso di avvicinamento all’isola, rallentato dal guasto del motore della barca, che trasforma un tragitto di 50 minuti in un piano sequenza di tre ore; Ghezzi il complicato percorso a piedi per ritornare alla spiaggia e prendere la barca: una partenza invece di un arrivo; Ghezzi, con una camera a spalla claudicante, filma gli uccelli morti, la nuda roccia, il cielo; Bressane descrive un paesaggio divenuto tela e diviso in due dall’orizzonte: in alto il cielo, in basso il mare, in mezzo «un triangolo nero, da dove sgorga, nel vertice superiore, una nuvola nera di fumo»; entrambi, Ghezzi e Bressane, si trovano davanti ad una natura non-umana, sperimentando un sentimento del tutto simile a quello dei personaggi femminili dei due film. A un certo punto accade qualcosa, uno strano meccanismo di identificazione: Edoardo Bruno recita, riproducendone la dizione, davanti alla montagna, le parole «sfumate, oscure, terrorizzate di figlia perduta», della Bergman, «Dio dio mio aiutami, dammi la forza, la comprensione, il coraggio» per poi dire «Che bello. Che mistero». Ghezzi, dentro quell’isola desolata, prima filma un buco nella roccia – il luogo dove potrebbe essere scomparsa Anna ne L’Avventura – e poi, all’improvviso, dice «qui è sublime» e filma, forse senza volerlo, l’orlo roccioso di uno strapiombo, come aveva fatto proprio Rossellini alla fine di Stromboli. È questo che succede quando si torna sul luogo dell’immagine? Senza volerlo, si diventa Karin, si diventa Anna, la ragazza scomparsa? Bressane – Edoardo Bruno – e Ghezzi sperimentano allora il gaio divenire, cito di nuovo Bressane, «felici fantasmi in una visione siderale»: il corpo quotidiano è entrato in collisione con il fantasma cinematografico che aveva evocato, ricordandoci della parentela che esiste tra cinema e evocazione spettrale.

Alla fine, una barca si allontana da Lisca Bianca. E questo ci fa venire in mente lo scafo di un’altra barca, in soggettiva, che, all’inizio di Relampagos de critica, murmullos metafisicos, ricorda, nel 1896, la sequenza seminale dei fratelli Secretto, andata perduta, che con una camera Lumière filmarono l’arrivo, dalla prua di un transatlantico, nella Bahia di Guanabara, a Rio de Janeiro. Prima di andar via, Ghezzi filma un buco nella roccia, e noi immaginiamo che possa essere il luogo dove la ragazza dell’Avventura era scomparsa; analogamente, in Bressane, un’immagine documentaria, amateur, si sostituisce all’immagine cinematografica mancante. E dopo uno stacco, anche Bressane filma delle rocce: le rocce – in bianco e nero, sgranato – della baia, sostituendo la vertigine del movimento in soggettiva (che appartiene, in una mise en abyme straordinaria, al film che la figlia di Bressane, Noa, Bruno Safadi e Rodrigo Lima, hanno dedicato a Belair, la casa di produzione udigrudi creata da Bressane insieme a Rogerio Sganzerla): queste rocce mostrano l’elemento ctonio della baia brasiliana, e la sua relazione con un pensiero, arcaico, degli antipodi.

Sia in Ghezzi che in Bressane si tratta di risarcire una perdita, di far fronte ad una mancanza. Ghezzi mostra un sito, Bressane, un itinerario: entrambi vogliono mettere la toppa del documento (della vita vissuta) davanti alla scomparsa irrimediabile di un pezzo di cinema (l’arrivo in una baia, la scomparsa in un’isola). Nel filmato di Ghezzi l’immagine documentaria, mostrando il vuoto di una scomparsa, realizza quello che non era stato possibile nella finzione di Antonioni, e in Bressane il filmato con l’arrivo della barca (nel 2016) si sostituisce a un vuoto originale (del 1896). L’immagine documentaria-familiare è quindi la pezza posta davanti alla débâcle di quella cinematografica (che si era dovuta rassegnare alla scomparsa della giovane e alla perdita di qualche metro di pellicola) o permette, in assenza dell’originale, di creare una specie di ready-made che ne faccia le veci.

L’immagine mancante può essere suturata, quindi, dal brandello dal documento, in un senso opposto da quello, per esempio, di Rithy Pahn, che sostituisce le immagini mancanti con un teatro di plastilina che però è altrettanto “documentario” (cioè mancante di una messa in scena che simula la vita daccapo e critico contro ogni possibile ipotesi di “ricostruzione integrale”, delle immagini mancanti).

Se il cinema si può quindi sostituire con un’altra cosa, un’immagine presa dalla vita, la vita è sotto minaccia costante. Come ci mostra il film con cui Bressane ha deciso di terminare i suoi Relampagos, una curiosa sequenza intitolata A Peste, girata a Parigi. Un tranquillo viaggio nella Ville Lumière è scosso dai titoli dei giornali che mostrano le prime avvisaglie del covid, mentre due figure mascherate sono impegnate in una sciarada alla Kenneth Anger che termina nelle sale vuote del Louvre, arca di Noè, vuota di esseri, scampata alla fine del mondo.

La perdita è sempre stata scongiurata attraverso l’uso delle immagini. La sfida radicale è innestare le immagini della propria vita nella vita del cinema. Ma si tratta di un’operazione rischiosa. Perché qualcosa non può non accadere: ovvero che l’immagine che pensavamo facesse parte non del cinema, ma della vita, diventi fittizia; o che l’immagine che era fittizia diventi un’immagine della nostra vita. I contorni fra cinema e vita si sono, allora, slabbrati: quella che chiamavano nostra vita, cioè «tutto quanto era vissuto in forma diretta, si è allontanato in una rappresentazione». È la frase con cui Guy Debord apre La società dello spettacolo, che, in Critique de la separation ci parla proprio di questo slittamento senza fine. Mentre il film mostra le immagini “semplici”, in panoramica, del Plateau Saint-Merin e, poi, un reggimento di soldati in marcia, ascoltiamo la voce over di Debord che dice che «lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che permettono di creare prodotti che generano soddisfazione»; la realtà da cui si tiene che partire è, però, l’insoddisfazione». Il cinema genera soddisfazione, la vita ci lascia insoddisfatti. Di nuovo il cinema e la (nostra) vita.

Nel film c’è una sequenza che mostra il fotogramma di un film in costume – ossia il cinema commerciale, e la vita reificata –, dove alcuni cavalieri si affrontano durante un banchetto con le spade sguainate, montato insieme alla scena rapidissima in un bar, dove un gruppo di giovani sta parlando e bevendo, con la macchina da presa che si avvicina, con un movimento elegante e casuale di cinéma vérité, alla ragazza bionda, di cui Debord parlerà alla fine: non il cinema ma la vita, potremmo dire, o quanto meno il “documentario”, obbligato a “dissolvere il suo tema”. Cinema, fotogramma bloccato di un conflitto fittizio e frammentato; documentario, scena in movimento di una conversazione reale in continuità: in ogni caso, alla fine cambia poco. Secondo Debord, «fino a quando non saremo capaci di creare la nostra storia, di creare situazioni liberamente, il nostro sforzo per l’unità darà origine a nuove rotture». Perché alla fine, «solo alcuni incontri esistono come segnali di una vita più intensa. Una vita che in realtà non è stata ancora incontrata».

All’improvviso, nel film, vediamo di nuovo il volto della ragazza bionda, che è Caroline Rittener, che assomiglia tantissimo a Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro di Godard (ha anche lo stesso taglio di capelli). Il personaggio reale è separato, dice Debord, da chi lo interpreta, «anche se solo per il tempo trascorso tra l'evento e la sua evocazione. Per una distanza che aumenta continuamente. E questa distanza aumenterà progressivamente. E aumenta in questo momento. Come l'espressione rimane separata da chi lo dice e da chi la ascolta. senza alcun potere su di essa».

Nell’ultimo, magnifico, Carax, C’est pas moi, questa critica della separazione viene superata continuamente: pensando al Godard delle Histoire(s), l’autore di Mauvais sang utilizza frammenti di film propri alternati a film “familiari” come fa Bressane, montando il (proprio) cinema e la (propria) vita, per salvarli, filmandoli, entrambi. Il film inizia con una domanda: «Dove sei? Non lo so, e se lo sapessi…», poi dopo il montaggio fra immagini familiari (una cucina, la colazione) e Chaplin occupato anche lui con il rituale della prima colazione, la frase «lì si trova mio padre» (la questione del padre perduto e ritrovato è un tema godardiano: figlio di quel Old Place che è il museo, il museo del Cinema, la Cinemateque, figlio di Langlois e quindi cine-fil, figlio del cinema), e l'immagine di quello che sembra un film in super 8 con un gruppo di persone (fra cui quello che potrebbe essere il padre). Immediatamente si complica tutto e quello che credevamo fosse un riconoscimento, si perde nel flusso di montaggio di fotografie dove il padre potrebbe essere chiunque e, quindi, nessuno (viene in mente l'inizio folgorante di Fotografias del cineasta argentino Andrés Di Tella: il cineasta sta passeggiando con sua figlia e le mostra una vecchia foto di gente che non conosce, dicendo che potrebbero essere suo padre e sua madre: la foto di sconosciuti diventa allora una foto di famiglia). Seguono la serie delle foto del "questo sono io", con tutti i bambini selvaggi del cinema, da Antoine Doinel a Edmund: montate insieme a foto di famiglia. Viene alla mente l’inizio folgorante dei Diari Serge Daney: «Nell’elenco dei ragazzini che non sono mai stato, ce ne sono cinque, un poco più giovani di me, che hanno condotto, in alcuni grandi film degli anni Cinquanta, un’esistenza di celluloide. John Powell, John Mohune, Michel Gérard, Edmund Koeler e Antoine Doinel: tutti abbandonati». Nel film di Carax si tratta, più che giustificare il cinema attraverso la vita e viceversa (quello stesso cinema che per Godard era colpevole di mancare, alla fine, l'appuntamento con le immagini giuste: il problema era che le immagini c'erano, era il tempo ad essere sbagliato) il desiderio di mostrare che nel caso di cinema o/e la vita la elisione e la congiunzione vanno a loro volta sbarrate, né «qui la vita e qui il cinema» (additando e quindi mostrando il luogo di entrambi, in un controcampo tra documentario e finzione, fra foto del castello di Elsinore e pagina di Shakespeare , simile a quello che fa Godard in Notre Musique) ma neppure «né il cinema né la vita» (nell' impossibile negazione di entrambe), ma un' altra cosa, il cinema e la vita esposti e nello stesso tempo ritirati e avvolti nel loro supposto contraddirsi, perché, come recitano le didascalie del film, I'm ok, I'm ko, I'm Chaos, sono "fasi" o proprio fotogrammi di uno stesso "piano", che in realtà è una tavola di montaggio. Piano scosceso che mette, uno accanto all' altro, The Lodger di Hitchcock e l'ascesi di Hitler raccontata da una madre, in una stanza, come fosse una fiaba (e fiaba è in effetti tutta l’ucronia, il piano di realtà che non è divenuto tale per puro accidente o capriccio, come capiamo quando leggiamo The man in the High Castle di P.K. Dick); un film sul complotto fallito contro il Fuhrer e le immagini di dittatori moderni (Trump, Putin, Assad, Netahaniau), e poi la sinistra premonizione di Tin Tin sull'Himalaya e la "Fin de tout" perché amleticamente (e dickianamente) «il tempo è fuori di sesto».

Ad un certo punto, nel film Esperimenti e Relazioni, Ghezzi dice che «si può solo perdonare l'imperdonabile», quell' imperdonabile gioco con le immagini con cui ci accordiamo come produttori e consumatori ma anche, aggiungiamo noi, montatori di immagini, se quel gioco imperdonabile è proprio la "gaia scienza" del "montare insieme". È solo così, allora, «il cinema ti perdona tutto», come ribadisce Carax, mentre vediamo la sequenza di Les amantes du Point-Neuf quando Alex brucia il manifesto con la foto di Michele ricercata ma che poi, nel film di montaggio diventa un'altra cosa, non esattamente un fotogramma di un film con Juliette Binoche bruciato, ma un atto sovversivo come quello dei giovani turchi di Queremos tanto a Glenda di Cortázar, dove si trattava di modificare, rigirandolo e rimontandolo, l' intero passato cinematografico di una diva (che poi esiste davvero come esiste Juliette Binoche, ossia Glenda Jackson). Atto di montare, atto di guardare (alla vita, al cinema), che, come suggeriva il montatore di Apocalipse Now, ha a che fare con il movimento più automatico e subliminale che facciamo da svegli, ossia sbattere le palpebre. Ed è a questo "battito" che Carax dedica l'ultima parte del film, attraverso una sequenza di immagini frettolose dove vengono montate insieme le immagini dell’asino di Au hasard, Balthazar di Bresson e l'occhio della macchina da presa di Vertov (due occhi che vedono, quello dell' animale che nega ad ogni passo il suo essere semplicemente aperto su un non-disvelamento, come diceva Heidegger, e la macchina che vede meglio e di più, fino all' inconscio ottico); un busto egizio senza occhi (che potrebbe fare parte di Old Place di Godard, altro film che mostra e cinema, oltre che pittura e esposizioni d'arte) e una serie di immagini dei grandi registi “monocoli”  Lang Ford Sternberg Nick Ray (e qui risuona la voce di Godard alla fine delle Histoire(s) quando dice di Francois, Roberto, Serge, «li ho conosciuti, erano miei amici»); un quadro rocaille di Santa Lucia con in mano il piattino con i suoi occhi (quante estirpazioni oculari nel cinema, da Pasolini a Bressane, da Buñuel a Brakhage) con la persiana che, nel film di Vertov, simula lo sbattere degli occhi; il volto di una donna che simula due lenti di cannocchiale con le mani, e una lunga immagine di una coppia davanti a un fuoco (metafora infuocata del mal di archivio cinematografico – ne Gli ultimi Giorni dell' umanità una lunga sequenza era dedicata all' incendio accidentale del deposito di pellicole di un cinema –). Mentre le immagini scorrono, la voce over di Carax ci ricorda che «un essere umano sbatte le palpebre fra le 15 e le 20 volte al minuto; 1200 volte all'ora; 28000 al giorno; se non sbattessimo le palpebre i nostri occhi si seccherebbero rapidamente. E diventeremmo ciechi».

Durante la giornata, senza accorgercene, vediamo quindi una lunga e frammentaria sequenza di fotogrammi neri, che fanno parte di quel film “che non si vede” e che sta dietro o davanti quella che ancora ci ostiniamo a chiamare – dopo tutte queste immagini viste, immaginate o lasciate andare – "nostra vita". Intanto le immagini di oggi sono ogni volta più frenetiche, agglomerate in un flusso continuo, dice più o meno Carax, già non respirano perché abbiamo smesso di sbattere le palpebre (ce lo hanno imposto , aggiunge il regista) Cioè, direbbe Aby Warburg, abbiamo smesso di praticare l'arte delicata del denkraum, di coltivare lo spazio tra le immagini, necessario al pensiero (perché non ci permettono di fare altrimenti, la risposta di Debord sul "chi" non permette la creazione di questo spazio mediano è “lo spettacolo”). Perché è necessario sbattere le palpebre; è necessario, dice Carax, imporre la bellezza al mondo. A questo punto il centro dell’immagine è occupato da una tela che brucia, L'Origine du monde di Courbet e, bruciando, assomiglia a una palpebra spalancata. Curioso: il film di Bressane finisce quasi nello stesso modo: con una carta che brucia fino a consumarsi. Con un fiore di fuoco. È forse questo che dovremmo fare con cinema e vita: lasciare che ci consumino, abbandonandoci al loro flusso infuocato. Il risultato sarebbe allora una specie di piano sequenza che mescola (come dice Bressane) ideogramma e ossessione: ideogramma perché permette alle immagini di copulare tra loro mostrando qualcosa che non era visibile quando esse erano sole; e ossessione perché ci introduce in una dimensione profonda del tempo, un tempo spiegato come una vela (che brucia, come in un quadro di Turner), che è sempre il tempo che (ci) manca.

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