Nel tempo della fine una certa etnografia si mobilita contro la guerra planetaria. Operazione inattuale dello sguardo accecato dalla passione per le immagini che rischia l’estinzione nella pulsione genocida che presenta l’inconscio del mondo.

Chi ha sguardo, chi sostiene lo sguardo non è il soggetto e non è la singolarità qualunque che fino a qualche anno fa era nominata come alternativa allo stato catastrofico del mondo. Non è più possibile, almeno fino a quando una imprevista resistenza non spezza la volontà di governo planetario, abbattendo la coltre di satelliti prodotti per l’estinzione. Non c’è più ragione di fare tiqqun, né di costituirsi invisibili per la destituzione. La notevole ipotesi della diserzione dalla vita armata, suprematista, che prosegue la moderna guerra delle razze, sconta l’arbitrio di una minoranza che da tempo ha fatto esodo dalla vita fascista, ma che vaga ormai tra le macerie delle possibilità di comune.

A maggior ragione allora le immagini memoriali degli “altri”, in altre terre che sono in realtà la terra, restituiscono l’archivio di un immaginario possibile. Per una urgente archeologia delle immagini: il paese dei Tharaumara, Nomad e i racconti di Chatwin a Herzog, il rito del serpente che cura Abi Warburg, Jean Rouch e l’evoluzione del teatro della crudeltà nelle scene junkie di Burroughs, i riti primitivi fuori Accra. È un’alternativa nomade ancora da scrivere. Chatwin non si fa contaminare e Burroughs non si fa rendere in immagini, tranne che nell’arte “criminale” di Cronenberg, documento estremo di ciò che può un corpo. Bagliori che rompono le immagini armate che hanno sconfitto le armi immaginarie e hanno fatto il buio di parole, cose e azioni.

Due varianti davanti alla cinepresa: gli occhi di desiderio del riformato Jean de Lery nel 1556 raccontati da Michel de Certeau e il cine-verité di Jean Rouch con le messe in scena per il cine-etnologo.  «C’è in Lery un luogo di svago e di godimento, festa dell’occhio e festa dell’orecchio: il mondo tupi. La erotizzazione del corpo dell’altro va di pari passo con la formazione di un’etica della produzione»; mentre per Rouch «fare un film, significa scriverlo con i propri occhi, con le orecchie, con il corpo, vuol dire entrarci dentro: essere al tempo stesso invisibile e presente,...per me la sola maniera di filmare, è di camminare con la macchina da presa, di portarla dove è più efficace, e di improvvisare con lei una specie di balletto in cui la macchina diventa viva come gli uomini che riprende...Soltanto allora il cineasta-operatore penetra realmente il suo oggetto, non è più lui, ma un “occhio meccanico” accompagnato da un “orecchio elettronico”. Ed è questo strano stato di trasformazione della persona dal cineasta che io ho definito, per analogia con i fenomeni di possessione, la “cine-trans”».

Siamo lontani dalle successive varianti eurocoloniali alternative, Castoriadis, Lapassade. In quel cinema c’era la lieve, sarcastica, dirompente ironia dei “negri” che revocava il sapere dell’etnologo sul campo. Con Rouch percorriamo il contrario dell’immaginario che è da sempre istituzionale, e siamo beffati, lui lo è stato per primo, dall’acting degli interpreti dei suoi road-movie. I mondi Woodabe, i concorsi di bellezza del Gerewal, scoprono un senso di ciò che il mondo coloniale uccide – l’estetica e l’erotica comune ai Fulani sub-sahariani e alle prime riprese di Rouch. La bellezza stratosferica dei ragazzi truccati abolisce il discorso della conquista nell’ironia gaia del mostrarsi: occhi spalancati e sorrisi taglienti. Qui il segreto è rivelato: il bacio dello scorpione può anche non uccidere, può far godere quanto la carezza dell’erba luminosa nella notte ancestrale.

Del teatro No studiato da Eugenio Barba, la cerimonia dei nemici dei Bororo conserva l’esibizione degli occhi, mentre i folli filmati da Rouch attrezzano un teatro della crudeltà per mettere in scena la Francia coloniale. Splendido, atroce documento dei margini del vedibile, Les Maitres fous inizia il cine-verité decoloniale. Presa diretta e fuoricampo della voce narrante in quello che sarà il cinema successivo incontrano il contrario dell’immaginario, cioè le vere immagini di una finzione. Ad Accra non sanno della Conferenza di Bandung. I paesi del “sud” non sanno del “non-allineamento”, ma sanno di periferie e messa in scena della generazione Frantz Fanon che sa fin troppo della Françafrique. La setta Haika dal quartiere del sale si muove nella boscaglia ove è allestita la quinta del Palazzo del Governatore. Qui ha luogo la cerimonia di possessione.

Il teatro dell’estasi è preparato sulla soglia tra l’evento e la realtà. All’interno c’è il rito crudele che deride le istituzioni coloniali. Di fronte all’occhio di Rouch, per quanto partecipe non da autore né da spettatore ma da attante (il cine-verità è questa soglia non più abitata) si svolge un’azione doppia: la scena senza cinepresa sopra la quale è planata la scena recitata, per metà drammatica, per metà reale. La ragione della falsa univocità di piano consiste nel senso stesso della scena che non ha bisogno di essere allestita per lo sguardo etnologico. Il rito è settimanale. D’altra parte, la semi-trance drammatica dell’azione rituale si svolge affinché l’occhio occidentale sia costretto a guardare.

La bava alla bocca degli attanti è la prova di verità di quanto si svolge nello spazio che racconta questa storia: l’uomo-locomotiva è lo schiavo soggiogato che il capitano della guardia controlla ed interroga. La “femme du docteur” assiste alle prodezze del tenente del Mar Rosso che bisticcia con le Gouverneur e con il generale in un “ménage a trois” distruttivo. La regina delle prostitute si bea irridendo il pupazzo del governatore, mentre prosegue l’animata disputa tra il crudo e il cotto e le galline vengono sgozzate. Il rituale di cura e di salvezza è compiuto. Lunedì si ritorna al lavoro sfruttato al mercato del sale, ma domenica il mondo bianco, maschio, imperiale è distrutto!

L’integrazione nel lavoro feriale, alla fine, richiama la deriva beffarda di Moi, un Noir. Qui i giovani nigeriani sono a Treichville. Lui, il “noir” è Eddie Constantine-Lemmy Caution agente federale americano. Edward J. Robinson è il pugile Ray Robinson. L’ironia sottile della città periferica presenta i luoghi erotici incompresi, la ragazza che sorride, il bar degli amici, le danze e la danza delle biciclette, meravigliosa sequenza da ballata; l’ammaliante Natalie che gioca la seduzione.

Lunedì Eddie Constantine non è più Eddie Constantine e Edward J. Robinson non è più il pugile. Rouch fa tornare di buon grado Godard in Francia. L’immaginario cinetico risale al punto di rottura della rappresentazione; ritorna al pesa-nervi di Artaud: «Ho mirato solo all’orologeria dell’anima, ho trascritto solo il dolore di un accomodamento abortito. Sono un abisso completo…». Per questo il Messico dei Tahraumara è la salvezza tra le lettere da Rodez e il teatro della crudeltà. Il secondo Manifesto del teatro, 1948, afferma: «Un’appassionata e convulsa concezione di vita». Un rito potente, ancestrale che «non intende lasciare al cinema il compito di svelare i miti dell’uomo e della vita moderna».

Il primo spettacolo è La conquete du Mexique, che viene dopo il racconto del rito del peyote. Là Artaud si incendia ritornando alla sua propria origine, quella che da osservatore Lévi Strauss racconta nel ciclo dei Mitologica. Ma facendo quella esperienza, scavalca le scienze umane e giunge al “sé” attraverso la merda, il piscio, il fuoco dello stregone. Il catalogo delle immagini verbali al paese dei Tharaumara è storia del presente delle tecnologie artistiche: l’atlante di Warburg, in cura con il rito del serpente; il cinema, che produce immaginario e che, simile al peyote, consente ai Tharaumara di «conoscere molto meglio quel che non è di quel che è». Dio-Ciguri ci chiama a sé.

Per Rouch l’iniziazione era iniziata nel 1949, anno di Initiations à la danse des possédés. Poi Jaguar, road-movie dal Niger al Ghana; Sigui l’enclume de Yougo: tutti gli anni i Dogoni della Falesia di Bandiagara, Mali, commemorano l’invenzione della parola, cioè della morte. Nel 1931 Marcel Griaule apprende che un rituale del Sigui «aveva luogo a Sanga nel 1909». L’antropologo ricostruì con la memoria dei partecipanti il primo studio di queste cerimonie. Dopo la morte di Griaule, Rouch filma il rito dal 1968 al 1973. Quindi Cocoricot, monsieur poulet e Funeral à Bongo: le vieil Anaï strepitose messe in scena antietnologiche della traversata nel deserto e del lutto collettivo.

Ma il serpente deve entrare nel guardaroba nel Dyonisos, messo in scena nell’aula-tribunale del dottorato nel giudizio di libertà. Tra l’assedio di Metz del 1870 e la comune di Parigi, Nietzsche concepì La nascita della tragedia. Il corteo delle donne dionisiache introduce il dio giovane e invisibile, mentre i giudici professori chiedono al dottorando che è l’Arianna del labirinto. É la conoscenza, Arianna, che si è impiccata come scrisse Michel Foucault a proposito di Differenza e ripetizione, teatro filosofico allestito da Deleuze, orchestratore dell’anarchia dei segni. Teseo, preso nel labirinto, danza, il minotauro ruggisce e il corteo del dio molteplice muore dal ridere.

Ma nell’età industriale l’orgia sacra può realizzarsi nelle composizioni di De Chirico: le molte entrate nel labirinto della città in cui mancano luoghi silenziosi in cui pensare. Parte una locomotiva, è la partenza di un amico e il ritorno della tragedia. Come le immagini in movimento la tragedia greca è il conflitto tra gli dei della città e la religione segreta dei misteri… ‘summa com laude’ al dottorando inattuale.

Niger 1974. VW Voyou traspone nel cinema di Rouch la verità della scena del mondo in frantumi, ovvero il “maggiolino” lanciato nel deserto nella cerimonia di attività ancestrali, la caccia, la pesca, la famiglia estesa che fuoriesce dall’abitacolo. L’inizio di una danza nelle vie del nomade si conclude in un giusto controfinale, in cui scompare la rappresentazione e il soggetto è disperso. In questo teatro la differenza non è rispetto a qualcosa e la ripetizione non è il contrario semplice del Medesimo. Differisce invece la differenza e la ripetizione è revoca continua dell’origine. Essere nomadi alla fine del mondo.

In una lettera del 24 febbraio 1969 Bruce Chatwin scrive a Tom Maschler che in alcuni studi sul comportamento animale e umano si individuano due tendenze: a girovagare, ereditato dai primati vegetariani e ad avere una caverna come territorio tribale. Qualcosa che abbiamo in comune con i carnivori. Anatomia dell’irrequitezza: «L’anatema di Diogene contro la vita urbana è un esempio precoce di “primitivismo culturale” o di “malcontento dei civilizzati verso la civiltà”. É un impulso emotivo anziché razionale quello che ha sempre indotto gli uomini ad abbandonare la civiltà e a cercare una vita più semplice, una vita in armonia con la “natura”, non impacciata dai possessi, libera dai vincoli opprimenti della tecnologia, innocente, promiscua, anarchica, e talvolta vegetariana…».

Una antica etica del viaggio oggi in disuso, diceva che «i viaggi reali sono più efficaci, economici e istruttivi di quelli fittizi. Dovremmo seguire i passi di Esiodo su per il Monte Elicona, e udire le Muse. Se ascoltiamo attentamente appariranno di certo. Dovremmo seguire i saggi taoisti, Han Shan che nella sua piccola capanna nella Montagna Fredda osserva il passare delle stagioni, o il grande Li Po – “Mi hai chiesto per quale ragione abito nelle colline grigie: ho sorriso ma non ho risposto, perché i miei pensieri bighellonavano per conto loro; come i fiori di pesco, erano andati a spasso in altri climi, in altre terre che non fanno parte del mondo degli uomini”. 1970».

Nella sinossi di L’alternativa nomade Chatwin scrive che «uno scettico del XIX secolo definì la religione, la civiltà inflitta alle razze “inferiori” sulla punta di una mitragliatrice Hatchkiss». D’altra parte, l’Islam è la grande religione nomade; così anche lo sciamanesimo. Il nomade rinuncia, medita in solitudine, abbandona i rituali collettivi e non si cura dei procedimenti razionali dell’istruzione o della cultura. La vera essenza della solitudine è l’ebreo errante, gli strumenti sono il tamburo e la chitarra. I ricchi sono i nomadi della civiltà, ma i veri nomadi assistono con animo sereno al tramonto della civiltà. Così fa la Cina, eccezionale combinazione di civiltà e barbarie.

Il libro più acuto di Chatwin, Le vie dei canti, è il resoconto di una ragione: “volevo scoprire come funzionava”. L’archeologo australiano John Mulvaney indirizzò Chatwin all’antropologo Theodor Strelhow, autore di Song of Central Australia. Strelhov era morto nel 1978, bistrattato e dimenticato e il suo incredibile libro era considerato una fantasia esotica. Chatwin volò a Alice Springs per studiare il libro di Strelhov sul luogo e mettere alla prova la sua teoria. «La filosofia degli aborigeni era legata alla terra. Era la terra che dava la vita all’uomo; gli dava il nutrimento, il linguaggio e l’intelligenza, e quando lui moriva se lo riprendeva… Gli aborigeni si muovevano sulla terra con passo leggero; meno prendevano dalla terra, meno dovevano restituirle.

Non avevano mai capito perché i missionari vietassero i loro innocui sacrifici. Loro non sacrificavano vittime, né animali né umane: quando volevano ringraziare la terra dei suoi doni, si incidevano semplicemente una vena dell’avambraccio e lasciavano che il sangue impregnasse il terreno». Si credeva che ogni antenato totemico, nel suo viaggio per tutto il paese, avesse sparso sulle proprie orme una scia di parole e di note musicali, e che queste Piste del Sogno fossero rimaste sulla terra come ‘vie’ di comunicazione tra le tribù più lontane. «Un canto…faceva…da mappa e da antenna. A patto di conoscerlo sapevi sempre trovare la strada». Gli aborigeni non immaginavano il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma come un reticolato di “vie” o “percorsi”.

L’outback australiano è fatto di aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; con piogge irregolari, un anno di abbondanza poteva essere seguito da sette anni di carestia. Muoversi voleva dire sopravvivere. Strelow aveva capito il nesso tra il canto e la terra. Le vie dei canti: «Qualche settimana prima, mentre frugavo tra le pubblicazioni dei nomadi del Sahara, mi era caduta sotto gli occhi una descrizione dei Nemadi ricavata dalle scoperte di un etnologo svizzero che li aveva classificati “tra i popoli più poveri della terra”». Vagavano in bande di circa trenta ai margini di el-Giùf e occupavano l’ultimo posto nella gerarchia sociale dei Mauri, quello dei paria del deserto. Mangiavano locuste e mele selvatiche e quando potevano, carne di cinghiale e vendevano ai nomadi il tichtar, carne secca di antilope che, sbriciolata nel cuscùs, gli dà un gusto di selvaggina. Sostenevano di essere i legittimi proprietari della terra che i Mauri gli avevano rubato.

Nel 1357 uno di loro, cieco, guidò il grande viaggiatore Ibn Battuta sulle sabbie del Sahara. Battuta scrisse «Questo deserto è bello e luminoso, e l’anima trova la serenità…». I Nemadi si ribellarono quando agli inizi degli anni Settanta, per l’invasione di orde di cacciatori in Land Rover, il governo impose il divieto di caccia. I loro canti preferiti parlavano di fughe nel deserto, dove avrebbero aspettato tempi migliori. In Australia il perenty, o varano gigante, è il sauro più grosso. «Alzai di nuovo lo sguardo verso le pareti rocciose del monte Liebler e scoprii che riuscivo a ‘leggere’ nella roccia il capo schiacciato e triangolare della lucertola, la spalla, la zampa anteriore e quella posteriore, e la coda che si assottigliava verso nord.».

Una simile analogia, che è più di una conoscenza, troviamo nella città a forma di puma dell’impero Inca descritta da Reiner Schürmann in Dai principi all’anarchia. Gli aborigeni tracciano sulla sabbia una serie di righe inframmezzate da cerchi. La riga è una fase del viaggio dell’Antenato (di solito il cammino di un giorno); il cerchio è una tappa, o un accampamento.

Nell’Australia aborigena ci sono regole precise per “tornare indietro”, o meglio per arrivare cantando al luogo cui appartieni: il luogo del tuo concepimento, il posto dove è custodito il tuo tjuringa, la piastra ovale di pietra o di legno di malga che è «sia una partitura musicale, sia una guida mitologica dei viaggi dell’Antenato. É il corpo reale dell’Antenato ed è l’alter ego di un uomo…, il documento che attesta la sua proprietà della terra...». Solo allora puoi diventare, o ridiventare, l’Antenato. «E’ un concetto abbastanza simile al detto di Eraclito: “i mortali e gli immortali, i vivi nella morte, i morti nella vita degli altri”». Strelhov dà una descrizione straziante di alcuni Anziani che scoprono che il loro deposito di tjuringa è stato saccheggiato dai bianchi…».

Gli orientali mantengono vivo un concetto un tempo universale: che la vita errabonda ristabilisce l’armonia originaria che esisteva una volta fra l’uomo e l’universo. La Via senza Via, dove i Figli di Dio si perdono e nel contempo si ritrovano (Maestro Eckhart). «Un manuale sufi, il Kashf al-Mahjub, dice che il derviscio, alla fine del suo viaggio, non diventa il Viandante ma la Via, ossia il luogo su cui sta passando qualcosa, non un viaggiatore libero di seguire la propria volontà».

Punta Arenas. Un relitto poggiato sull’orlo del mare è una delle prime immagini del film di Werner Herzog, Nomads. Sulle tracce di Bruce Chatwin. La fotografia è nel viaggio-racconto In Patagonia. Di quel testo, che raccoglie le immagini acustiche e corporee della terra estrema, il senso è “la terra eccentrica di solitudine, esilio e allucinazione”.

Herzog, qui per bocca di Chatwin e prima di lui dell’archeologo Eberhardt che trovò la pelle del milodonte, e poi dell’incredibile Strelhov, viaggia il racconto. Il vascello che non raggiunse mai il suo porto è la traccia di immaginario storico-geografico che l’inevitabile storia dell’estraneità dispiega. Una volta assolto dall’ordine simbolico che inchioda al discorso, il luogo immaginario a cui “andare” è lo spazio mobile dell’incontro, dei sogni, dei canti, delle vie e di ciò che delle immagini non vediamo: le visioni.

L’immensa scoperta del vedere non è né futuro da indovinare, né conoscenza da accumulare. All’estremità della terra si risale al luogo da cui proviene la parola. Il brontosauro e il milodonte. In sequenza: Eberhardt scoprì i resti delle misteriose creature preistoriche, il paleoantropologo Richard Leakey scoprì il cranio di “homo erectus” in Kenia e Chatwin assistè alla scoperta di resti dell’uso del fuoco nella grotta di Swartkrans (Johannesburg) un milione di anni fa circa.

Quindi, Nicholas Shakespeare spiega il valore della memoria personale della raccolta di oggetti. Quindi, paesaggi dell’anima: ad Avebury, presso una gobba collinare di milioni di anni fa tra pietre simili a menhir si consumano nuovi, turistici, riti di purificazione. Ma qui non si fluttua nel turismo, si comincia ad affondare nel buco del tempo: vi si intersecano potenti campi di forze, forse magnetismi, forse altre forze. Quindi, festoni da fiera in bianco e nero che sono mulini psichedelici addensati nella piana della follia.

Una volta lasciata la città, lo stato e il senso, il racconto è visione e la visione percorre le genealogie del sapere. Non c’è cinema se non c’è la delicata arte del distacco. Il frammento del Viceré di Ouidah è il sogno della guerra simulata delle donne che sconfiggono il maschio pazzo – Klaus Kinski di fronte al re indio –. Là, in quel punto la storia del dominio si converte. Il vero si mostra per ciò che è davvero: falso reale di fronte alla verità immaginaria, che è la vita vera, la vita nomade, la vita d’esilio.

Antichi camaleonti dai vividi ocra della pelle a scaglie ottagonali raggiungono il relitto dell’astronave di guerre stellari. La malìa del vento porta canti, che sono le vie dei sogni. Chatwin, il “bianco”, “l’imperiale” voce dell’outback australiano, ha provato la differenza tra un antico sentire e il mortale vedere. Gli anziani dei Wallabi, degli Ayawerre, degli Arremite non dicono, ma sanno la visione segreta delle vie. «Quando gli aborigeni tracciano sulla sabbia una Via del Canto, disegnano una serie di righe inframmezzate da cerchi…». Una matematica applicata al disegno è qualcosa da vedere e da seguire, senza voler conoscere. Lo scacco della civiltà non passa per gli occhi ma per l’udito che in esilio è più acuto e più pratico.

Il racconto arriva all’isola Navarino, Terra del Fuoco, alla fine del mondo. Qui la preistoria diventa storia. Scioglie il dominio coloniale nella luce argentea dei primi scatti etnografici. «Nel 1890 una crudele interpretazione della teoria di Darwin, nata a suo tempo in Patagonia, ritornò in Patagonia e sembrò incoraggiare la caccia agli indios». Le foto degli ultimi indios sono scie di spiriti permanenti. Le loro immagini mostrano che la conquista dell’America è stata questione di immaginario deviato dei legami viventi in piste non indicate dalle mappe. «L’età dell’oro finì quando gli uomini smisero di cacciare, si stabilirono nelle case e cominciarono a lavorare duramente ogni giorno». Allora “è arrivato il momento di errare”.

Non pensare ripetizione e differenza, chiedeva Foucault, ma fare differenza e ripetizione. Questo cinema che è stato e che oggi si rivede, questa scrittura errante che dai margini affetta e infetta la civiltà suprematista chiede al senso di provare, oggi, a fare altre immagini, a lottare il fascismo delle idee, a restituire all’estetica un’erotica incompresa ad ogni sguardo di dominio. E trovarvi segni di liberazione.



Questo articolo è parte di una ricerca in corso sull’etnografia e l’antropologia della guerra. Alcuni materiali sono consultabili sul sito web www.archeologiadelpresente.it

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