Certo, questa invasione delle prenotazioni telematiche (che ti mettono in uno stato parossistico d'ansia già mesi prima della Mostra); la nuova prassi delle file virtuali; la coartazione a stilare un programma di visioni giorni e giorni prima delle proiezioni, senza la possibilità di improvvisare, cambiare idea all'ultimo momento, lasciarsi sorprendere da un film inatteso, impensato ecc.; il disappunto di fronte al messaggio uno e trino sul telefonino, di sale esaurite - ma poi... arrivi in una sala data per gremita e ti accorgi che è quasi vuota (ad esempio non sono riuscito a vedere un solo film della SIC quest'anno: erano proiezioni inaccessiabili, ma anche lì, dice: molti posti vuoti) -; insomma tutto questo incrina l'idea che si aveva dei festival cinematografici fino a tre anni fa.

Reduce dalla Mostra di Venezia, constato da una parte l'ottusità a voler continuare su questa strada - emergenza covid finita da un pezzo -, dall'altro il crescente disamore dell'utenza, almeno di quella più consapevole (ho assistito a vere e proprie, esasperate, fughe dal Lido quest'anno). L'impressione è che si tratti sempre più di un festival acconciato per i parvenus, i turisti,  bramosi di tappeti rossi, apparizioni inamidate o scintillanti di pseudodivi o di quelli che si suole chiamare - orrore - influencer, al contrario di quanto avviene a Locarno e a Berlino, dove il testo cinematografico ha ancora una netta preminenza sul contesto.

Eppure, nonostante tutto, le visioni ineffabili ci sono state in questa ottantesima edizione, a dimostrazione dell'urgenza e dell'inalienabilità dell'esperienza festivaliera: Wiseman, Tsukamoto, Bonello su tutti (di questi, solo Bonello è certo dell'uscita nelle sale italiane: ecco l'importanza dei festival), accanto alle sorprese (anzi, per quanto mi riguarda, si tratta di conferme) di Timm Kröger e Saverio Costanzo e a fronte di qualche delusione (ma non ho visto né il film di Lanthimos, né quello di Brizé, per via di ipotizzati, virtuali "tutto-esaurito").

Penso ad Harmony Korine, al Lido, fuori concorso, con Aggro Dr1ft (tra l'altro il suo Trash Humpers viene citato nel film di Bonello), che sembra aver accantonato del tutto l'idea, la fenomenologia del cinema in favore del post-cinema, del filmato computerizzato, del videogioco. Il che può anche essere interessante dal punto di vista filosofico, postmoderno, morto Vattimo - spingere più in là, scavare più in là nel potenziale, nel visibile la ricerca di immagini congruenti - ma di fatto l'effetto della telecamera termica appare gratuito, stancante, tanto più per una "storia", e la prospettiva da cui è raccontata, che hanno pure una loro attrattiva.

Resta il capolavoro di Tsukamoto, Hokage, di cui scrivo in seguito, e quello che definisco il trittico dell'abisso, costituito da Finalmente l'alba di Costanzo, La Bête di Bonello e The Theory of Everything di Kröger, tutti esploranti il gouffre, il baratro senza fondo che è l'immagine cinematografica, il segno, in eco di Lacan, di Metz, di Deleuze. Un cinema dentro il cinema dentro il cinema e così all'infinito (negli infiniti multiversi krogeriani), che cerca di ridire, ricalcolare il tempo del cinema, dell'immaginazione, facendone il tempo dell'essere.

Continua, in questo anno quattordicesimo di Uzak, e anzi si fortifica sempre più, il sodalizio con i critici e gli studiosi sudamericani, auspice Giovanni Festa. Si trovano in questo numero 44 articoli in italiano e spagnolo sul tema dei "mostri", che oscillano tra "genere" e autorialità. In qualche modo, l'avventura delle forme, anche sformate, mostruose, continua, e pensiamo sia difficile, insensato uscirne.

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