The-road

The Road (2009), il film di John Hillcoat, e, prima ancora, il romanzo di Cormac McCarthy da cui è tratto, rappresentano a nostro avviso un momento importante e per certi versi un punto di arrivo di un genere (o sottogenere), quello cosiddetto postapocalittico, che negli ultimi anni sembra vivere un seppur contenuto revival. Genere che ha in realtà dietro di sé una lunga tradizione tematico-narrativa sulla quale vale la pena di ritornare, anche perché la forza che ha questa storia di un Padre e di un Figlio in viaggio disperato attraverso un mondo sconvolto sembra derivare, almeno in parte, proprio dalla rivisitazione (e in un certo senso dalla messa a nudo) di una serie di motivi mitici profondamente radicati nella cultura occidentale.



Una sottrazione dell’immagine

Partiamo dall’inizio, dall’inizio del film e dal mondo prima della catastrofe. Le prime inquadrature sono quelle del giardino di una casa colonica: la cinepresa si sofferma sulle piante e sui fiori, su una giovane donna, su un uomo che accarezza un cavallo. È una giornata di sole, le immagini insistono sui colori vividi dei fiori, sul giallo, sul rosa, sul verde delle piante. Un mondo di colori pieni e di luce.

Stacco. Interno, notte. La seconda scena annuncia la catastrofe, l’uomo avverte qualcosa e apre tutti i rubinetti di casa, si odono rumori stridenti e grida disperate in sottofondo.
Stacco. Ellissi. Primo piano sul volto invecchiato, barbuto e malcurato dell’uomo. Il Padre (Viggo Mortensen) si sveglia di fianco al Figlio (Kodi Smit-McPhee) ancora dormiente e lo copre. Siamo all’interno di una caverna; gli elementi minerali, inanimati, freddi (rocce, acqua, pietra, ghiaccio) fanno subito avvertire allo spettatore la natura inospitale del Nuovo Mondo. Solo in un secondo tempo, seguendo lo sguardo del Padre, l’inquadratura mostra quello che c’è all’esterno della caverna: un universo sfinito, fatto di ceneri, di vegetazione carbonizzata, di alberi spogli e morti, che le immagini ci restituiscono con una desaturazione dei colori che appiattisce tutto in un marroncino terroso.

L’opposizione colore saturo/colore desaturato (policromia/tendenza alla monocromia) accompagna e sottolinea le opposizioni figurative tra animato (fiori, piante, animali) e inanimato (rocce, terra, acqua), tra caldo e freddo. Una serie di opposizioni che, seppur modulate dalla mediazione del passaggio attraverso due spazi chiusi e parzialmente bui (la casa di notte, la caverna all’alba) e dalla ricorrenza tematica (il sonno, il risveglio) che attenua l’ellissi temporale, rimangono comunque nette ed evidenziano l’insanabile frattura tra il mondo prima e quello dopo la catastrofe. Il primo è il mondo del ricordo e insieme, certamente, il mondo del sogno: un mondo luminoso ed aereo, di fuoco e d'aria; il presente è invece un mondo ctonio, scuro, di terra e di acqua. In mezzo, appunto, l’ellissi, la catastrofe, accennata ma mai mostrata nel film.

Una tale sottrazione dell’immagine del disastro accomuna il film di John Hillcoat ad altre recenti pellicole d’argomento apocalittico e postapocalittico: di contro all’ostentazione di spettacolari scene di distruzione che caratterizza certi blockbuster hollywoodiani, da Independence Day (1996) a The Day After Tomorrow (2004), entrambi di Roland Emmerich1, film come E venne il giorno (2008) di M. Night Shyamalan o Right at Your Door (2006) di Chris Gorak – e prima di essi l’episodio di 11’09’’01 (2002) firmato da Inarritu – scelgono invece la via della reticenza, dell’elisione dell’immagine della catastrofe, il racconto della quale è spesso delegato al suono e alla voce. In Right at Your Door l’unica immagine del disastro è quella del fumo tra i grattacieli lontani del centro di Los Angeles, tutto il resto viene raccontato attraverso i notiziari radiofonici.

Un’analoga assenza dell’immagine ritorna in E venne il giorno di Shyamalan, sempre in tensione tra l’esigenza spettacolare della visibilità e una sorta di pietosa reticenza dell’immagine. Si pensi, tra i tanti possibili esempi, alla scena in cui un gruppo di sopravvissuti spinti al suicidio si toglie in massa la vita passandosi l’un l’altro la pistola di un soldato; tutto avviene fuori campo: ciò che lo spettatore (e i personaggi) vedono è solo il soldato che si allontana con la pistola, tutto il resto avviene dietro una collina, non visibile. Di nuovo l’informazione narrativa non passa per l'immagine ma per i suoni. Allo stesso modo, in un'altra scena la distruzione della città di Princeton e la morte di una bambina vengono descritti (meglio, vissuti) in tempo reale, mentre la piccola parla al telefono con la mamma lontana.

Si dirà: motivi di budget nel primo caso o di tensione drammatica nel secondo. Ma non vogliamo rinunciare all’idea che ci sia qualcosa di più: può essere un facile sociologismo, forse un’osservazione  un po’ banale, ma se è vero che, come spesso si dice, la società contemporanea è una società dell’immagine, che la realtà è sempre più indistinguibile dalla finzionalità, che l’immagine non è più lo specchio del reale, ma, anzi, è reale ciò che è immagine (come afferma il protagonista-cameramen di Cloverfield), i due film sembrano dirci che una rinnovata prensione del reale non può che affidarsi alla voce, al suono. Ma ci dicono anche che, se la nostra esperienza del mondo è sempre più filtrata e, anzi, organizzata all’interno di una iconosfera2 , la dissoluzione apocalittica della società contemporanea non consiste solo nella distruzione e nell’abbandono delle città (classico tema delle narrazioni apocalittiche e postapocalittiche degli ultimi due secoli), ma diventa prima ancora distruzione delle immagini. Se, come afferma Serge Daney (1999), le immagini sono immagini del potere, la fine – apocalittica – di questo potere non può che portare al silenzio delle immagini e l’esperienza della sua distruzione non può che essere riferita attraverso la voce e il suono3.

Ma The Road, il film e il romanzo, vanno oltre. La sottrazione riguarda non soltanto l’immagine, ma la natura stessa della catastrofe, della quale nulla si sa né si vede, e nulla, nemmeno, si dice. Cosa non nuova, se non nel cinema quanto meno nella letteratura apocalittica americana, basti pensare a due romanzi entrambi restii in modo diverso al sensazionalismo che pure è componente del genere, come Dhalgren di Samuel Delany (1975) o The Memoirs of a Survivor (1974) di Doris Lessing. Qui, come in The Road, “qualcosa” è accaduto e la struttura sociale è collassata; cosa sia questo “qualcosa”, quale la motivazione, in fondo voyeuristica, della catastrofe non interessa: essa si svela puro espediente narrativo per mettere in scena una situazione drammatica. Allo stesso modo, almeno nelle opere della Lessing e di McCarthy (e, per quanto possibile, nel film), nomi, tempi, spazi rimangono incerti, in una sorta di scarnificazione o, meglio, di distillazione figurativa; come se fossero, in fondo, accidenti innecessari: ciò che conta è il meccanismo narrativo stesso della catastrofe, un meccanismo ricorrente (una costante in senso proppiano) che mette in scena uno scontro polemico e rinvia a una serie di opposizioni valoriali profonde. Si tratta, come si diceva all’inizio, di un motivo tematico-narrativo4  che ha innervato l’immaginario postapocalittico degli ultimi due secoli, ma le cui origini risalgono all’antichità, e che libro e film scarnificano e mettono a nudo, fanno a pezzi e insieme riconfermano.


Un meccanismo narrativo.

The Road è, innanzitutto, la storia di un Padre e di suo Figlio, e del loro rapporto in una situazione esistenziale unica ed estrema. Padre e Figlio, dopo il suicidio della Madre (Charlize Theron) e l’abbandono della vecchia casa di famiglia – eventi descritti nei numerosi flashback che costellano il film –, si mettono in viaggio verso il Sud in cerca di un posto più caldo e accogliente, attraversando un mondo sconvolto dall’ignota catastrofe. All’inizio del film, la voce narrante del Padre così descrive il Nuovo Mondo:

«Ogni giorno è più grigio del precedente. Fa freddo, e il freddo aumenta ogni giorno man mano che il mondo lentamente muore. Non sono sopravvissuti animali e le coltivazioni sono da tempo sparite. Presto tutti gli alberi del mondo cadranno. Le strade sono pullulate da profughi che trascinano carrelli e da bande di uomini armati in cerca di carburante e cibo».

Anche il Padre e il Figlio, del resto, si aggirano per foreste carbonizzate e cittadine in rovina, spingendo un carrello con le loro poche cose e vivendo di quanto riescono a trovare tra le rovine del Vecchio Mondo. Nel loro viaggio sfuggono prima a una banda di predoni poi a un gruppo di cannibali, fino a quando non trovano un bunker pieno di scorte di cibo, di carburante e di munizioni. Ma è un rifugio solo temporaneo: ossessionato dall’idea di essere inseguito, il Padre abbandona presto anche questo rifugio e si mette di nuovo in viaggio con il Figlio, arrivando infine sulla costa.

In questo fosco scenario di distruzione, nell’assoluto presente della sopravvivenza («credo sia ottobre, ma non ne ho la certezza. Sono anni che non ho un calendario») il Figlio è insieme legame con il passato (con il ricordo della moglie morta) e speranza per il futuro. In un mondo che appare non soltanto sconvolto ma ormai sterile, i bambini – il Figlio nato dopo la catastrofe, così come gli altri che talvolta si intravedono – diventano l’emblema stesso di un mondo “altro”, della sua possibilità.

La difesa del bambino è l'obiettivo unico del Padre, da perseguire a ogni costo: «Ammazzerò chiunque voglia toccarti. È questo il mio compito», dice il Padre al ragazzo dopo lo scontro con la gang di razziatori. È un orizzonte inseguito tenacemente anche se, in fondo, senza speranza: «Quando penso al bambino ho solo una domanda: ce la farò quando arriverà il momento?», dice la voce fuori campo del Padre di fronte all’impossibilità della salvezza e alla prospettiva di utilizzare gli ultimi due proiettili rimasti nella pistola per una morte disperata e misericordiosa.
«L’unica cosa che so è che il bambino è la mia garanzia. E se non è lui il Verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato», afferma ancora la voce recitante del Padre. Emerge in questa frase il fondamento religioso, anzi biblico, proprio della società e della cultura americana. Si tratta di un richiamo che rinvia alla natura più antica dell’idea apocalittica, che fin dalle origini della cultura religiosa occidentale (giudaica prima e cristiana poi) è legata alle profezie messianiche, al ritorno sulla terra della Parola di Dio. Perché nella tradizione cristiana l’Apocalisse non è soltanto, e non essenzialmente, distruzione: ma, innanzitutto, rivelazione delle cose future, e in particolare dell’instaurazione, seppur traumatica, del regno di Dio in terra.

Nella cultura occidentale il tema si incrocia con un altro mito non meno antico: quello greco della Palingenesi, della fine dell’universo e del nuovo inizio, del tempo ciclico e dell’eterno ritorno dell’uguale. Il termine era usato dagli stoici, e da Zenone di Cizio, per indicare la rigenerazione dell’intero universo dopo ogni sua periodica distruzione (ekpyrosis) ad opera del fuoco primordiale.
A tale concezione ciclica del tempo, secondo la quale in ciascun ciclo ogni cosa ritorna uguale a sé stessa e ogni avvenimento si ripete in maniera identica, nella Bibbia (e poi nella tradizione cristiana) si contrappone una concezione lineare, secondo la quale è Dio che ha creato il mondo e gli pone una fine. La Storia diventa un percorso evolutivo lineare indirizzato a Dio e, quindi, ad una fine unica ed irreversibile del tempo umano e mortale5 . La stessa Bibbia si offre come un «tradizionale modello di storia, inizia con un inizio (“In Principio…”) e finisce con una immagine della fine» (Kermode 1972, p. 19). In quest’ottica la distruzione apocalittica si pone come momento finale, tempo delle ultime cose (eschaton), fortemente connotato in senso giudiziario: l’Apocalisse è il momento dell’affermazione della giustizia divina e porta con sé la nascita della città di Dio. Le visioni apocalittiche, nel loro pessimismo, annunciano anche che «un altro mondo è possibile», o meglio che «un altro mondo è in arrivo», anzi è già reale, il profeta apocalittico lo ha visto (Redalié 2005, p. 22).

Sarà per questa via che l’immaginario apocalittico verrà nei secoli spesso associato a quello utopico: il Nuovo Mondo non potrà che nascere sulla distruzione del Vecchio Ordine ingiusto. È quanto accade, solo per fare un esempio cinematografico, in quello che è forse il primo vero film postapocalittico, La vita futura (1936) di Cameron Menzies, nel quale la città dell’utopia razionalista, Everytown, sorge sui resti di un mondo ridotto in macerie dalla guerra mondiale.
Da un lato abbiamo, dunque, il rinnovamento nell’eternamente eguale, la Palingenesi, dall’altra l’affermazione del Mondo Nuovo, della Gerusalemme celeste. Nelle mitologie postapocalittiche contemporanee, così come si sono configurate a partire dalla seconda metà dell’Ottocento6 , questa dicotomia si trasforma in un modello narrativo ricorrente, costruito attorno a due polarità che innervano la costruzione del testo e, in definitiva, rinviano allo scontro tra due universi di valori: il restauro del vecchio mondo preapocalittico o la fondazione di una nuova società, spesso più giusta, talvolta egalitaria e libertaria.

Si osservi, tuttavia, che il Mondo Nuovo non è necessariamente investito di valori positivi: allontanandosi dalla tradizione biblica della Gerusalemme Celeste, molte storie – da Terminator (James Cameron 1984) a L’esercito delle dodici scimmie (Terry Gilliam 1995), solo per limitarci al cinema – ci mostrano, invece, la nuova società con i tratti infernali di una distopia. Viceversa, ci sono molti testi di anticipazione nei quali il valore positivo consiste nella restaurazione della vecchia civiltà precatastrofe – o quanto meno in una sua accettabile approssimazione – e ogni diversa riorganizzazione assume valore negativo. Basti pensare a L’uomo del giorno dopo di Kevin Costner (1997), tratto dal romanzo The Postman di David Brin del 1985, dove il valore utopico vagheggiato è nient’altro che la ricostituzione degli Stati Uniti d’America come entità nazionale.

In ogni caso, ed è quello che qui ci interessa, permane una più generale opposizione tra vecchio e nuovo, che, come ho cercato di mostrare altrove7, si realizza in una duplice struttura polemica: da un lato la lotta per la sopravvivenza in una natura diventata ostile, alla quale si contrappongono gli sforzi per creare e difendere una comunità civile (che rinvia all’opposizione fondamentale Natura vs Cultura) , dall’altro la contesa intorno ai principi fondanti della nuova società, lo scontro tra valori differenti e tra loro inconciliabili, che rimanda alla dicotomia Cultura vs Anticultura8.
A tale riguardo lo studioso americano Gary K. Wolfe ha individuato all’interno di questa tradizione una struttura narrativa peculiare, delineando un modello ideale, costituito dalla successione di cinque elementi funzionali, ognuno dei quali può essere o meno esplicitato nei singoli testi. Abbiamo così, nell’ordine: 1) esperienza o scoperta del cataclisma, 2) viaggio attraverso lo scenario di distruzione, 3) insediamento e costituzione di una nuova comunità, 4) riaffioramento dello scenario di distruzione nel ruolo di antagonista, 5) scontro finale utile a determinare quali valori prevarranno nel Nuovo Mondo9.

Wolfe ritrova nella sua completezza tale modello in un classico della letteratura apocalittica come Earth Abides di George Stewart (1949), ma, come ho mostrato altrove10, esso è facilmente rintracciabile in molte realizzazioni cinematografiche e televisive. Ad esempio, la famosa serie televisiva degli anni Settanta I sopravvissuti (ideata da Terry Nation e trasmessa dalla BBC per 38 puntate in tre stagioni tra il 1975 e il 1977), e il suo recente remake si reggono su un identico schema: in seguito a un virus letale che sta uccidendo buona parte della popolazione e i loro stessi familiari (1) i protagonisti abbandonano Londra per le campagne (2). Qui incontrano altri sopravvissuti con i quali costituiranno il primo nucleo di una comunità democratica ed egalitaria che si stabilirà in una grande tenuta di campagna ormai deserta (3); la nuova comunità però è sottoposta a durissime avversità, ivi compreso un ritorno di fiamma del virus (4). Lo scontro di valori (5) si attua sia all’interno della comunità, sia in relazione con altre comunità, dominate invece da una logica violenta e autoritaria11.
 
Tali elementi si ritrovano in forme diverse anche nelle produzioni cinematografiche, a partire da La vita futura per arrivare ai film postapocalittici recenti, dal già citato E venne il giorno fino a 28 giorni dopo di Danny Boyle (2004): in entrambe queste opere ritroviamo l’esperienza del cataclisma, la fuga dalla città, il ritorno antagonistico del cataclisma, lo scontro di valori. Quello che sembra mancare, nei film più recenti, è semmai il momento della costruzione di una nuova comunità. Ma sul significato di questa assenza e, più in generale, sul nuovo cinema postapocalittico si dovrà tornare a interrogarsi in altra sede.

Quanto a The Road, anch’esso sembra partecipare di tale assenza. In effetti, il film appare a prima vista come la messa in scena dell’impossibilità della rinascita: la morte di ogni vegetale ed animale, e quindi l’impossibilità di coltivare e di allevare, è anche l’impossibilità di edificare qualsiasi comunità stabile. La riduzione a un’economia di rapina, basata sullo sfruttamento di quanto è rimasto del vecchio mondo, quando non sul cannibalismo, implica un eterno nomadismo, alla ricerca di sempre nuove fonti di approvvigionamento, e insieme la lotta di tutti contro tutti per accaparrarsi le limitate risorse, il ritorno alla condizione dell’homo homini lupus, una situazione in cui qualsiasi coesione sociale è per sua natura impossibile.

Elisa l’immagine della catastrofe, impossibile la costruzione di una comunità, il film si concentra (fin dal titolo) su quello che Wolfe definirebbe il viaggio nello scenario di distruzione, ma è un viaggio verso il nulla, un viaggio senza speranza. In una situazione esistenziale in cui nessuna progettualità è possibile, in cui ogni giorno è uguale al precedente, i protagonisti vivono in una sorta di sospensione del tempo, della coscienza del suo passare: l’eterno presente della sopravvivenza, come si è detto. È un meccanismo narrativo bloccato quello che rende il film (e il libro) così incisivo: la catastrofe non è irruzione del Nuovo, ripartenza, ma solo la distruzione del Vecchio; quello che resta è un limbo intermedio, né Vecchio, né Nuovo, incapace di esistenza autonoma, che si regge sullo sfruttamento delle magre risorse rimaste dell’antico mondo e sulla propria stessa cannibalizzazione.

In questo senso, tra i cannibali e gli altri profughi che vivono sui resti del passato esiste forse una differenza solo di grado. «Noi siamo i buoni», dice il Padre al figlio, «Dobbiamo stare attenti ai cattivi perché […] Noi portiamo il fuoco. […] Il fuoco dentro di Noi». Ma nella lotta per la sopravvivenza, nella costante paura dell’altro, lo scarto si fa sempre più indistinguibile: «Siamo ancora noi i buoni? – chiede il Figlio a un certo punto – E lo saremo sempre, qualunque cosa ci capiti?».

È il bambino a scardinare la logica del sospetto e della paura che domina il Nuovo Mondo, l’incapacità di avere fiducia negli altri che pervade ormai anche il Padre: è lui che insiste per soccorrere e sfamare un vecchio cieco che incontrano per strada. Ed è lui, nel momento in cui il Padre, dopo aver aiutato il vecchio, lo allontana abbandonandolo al suo destino, ad accusare: «Quel vecchio non era cattivo. Non vedi più la differenza».

Altra scena: il Padre abbandona tra gli sterpi un giovane di colore, reo di aver tentato di rubare i loro averi, lasciandolo completamente nudo e quindi destinato a morire. Qui la differenza tra due atteggiamenti ormai opposti si fa esplicita, fino allo scontro: «Tocca a te preoccuparti di tutto?», dice il Padre al rimprovero del Figlio; «Tocca a me preoccuparmi, va bene?» è la replica.
Di nuovo, uno scontro di valori: da una parte il Padre, legato al limbo senza tempo di una sopravvivenza egoistica e solitaria, legata in maniera parassitaria a quanto resta del passato, dall’altra il Figlio che «ha bisogno» di incontrare gli altri bambini, che sente in definitiva la necessità, anche etica, di un'aggregazione basata sulla fiducia e sulla solidarietà reciproca. In un’ultima scarnificazione narrativa, l’edificazione di una nuova comunità, e lo scontro di valori che essa porta con sé, è dunque  introiettata negli atteggiamenti stessi dei due protagonisti.

Che la rinascita sia possibile è suggerito, nel momento in cui i due protagonisti arrivano sulla costa, dal reperimento da parte, non a caso, del Figlio di uno scarabeo vivo, di un vivido color verde, seguito subito dopo dalla visione lontana di un uccello in volo: è la speranza che la natura non sia morta, che il ciclo della vita possa riprendere; ma anche, in prospettiva, la possibilità che esistano di nuovo le basi materiali in grado di sostenere la nascita di una nuova comunità.

Ma perché ciò possa avvenire, perché si possa sfuggire all’eterno presente e possa ripartire il meccanismo narrativo bloccato, diventa a questo punto necessaria la scomparsa del Padre: è solo dopo che questi, ormai malato e ferito, muore sulla spiaggia, che, in base a questa logica mitico-narrativa, può manifestarsi il Nuovo, incarnato nella figura del Reduce12  (Guy Pearce), l’uomo che  da un po’ di tempo seguiva da lontano Padre e Figlio, preoccupato per il bambino, ma che solo ora si fa avanti invitandolo ad aver fiducia (si noti come il tema ritorni) e ad unirsi a lui e alla sua  famiglia. Un padre e una madre, due bambini, un maschietto e una femminuccia, e persino un cane: la famiglia, cellula elementare della società, diventa qui il nucleo di una futura possibile comunità e della speranza in una possibile rinascita.


Note

1Ma anche (in diversa maniera) alla proliferazione dell'immagine presente in Cloverfield (2008) di Matt Reeves.

2Sull’idea di iconosfera cfr. Caprettini – Visalli (2009).

3E forse, spingendoci più in la, se è vero che ormai esperiamo il mondo come immagine (cfr. Dinoi 2008, pp. 20-22), la fine società dell’immagine è anche in qualche modo il ritorno del reale. Certo vi è nel film di Shyamalan una forte perplessità su ogni pretesa testimoniale dell’immagine: apertamente scoperta, in tal senso, è la scena in cui i profughi arrivano in un villino al cui interno, come in un set, ogni cosa, dai fiori, alle suppellettili, ai cibi è falso, una riproduzione di plastica.

4Sul concetto di tematico narrativo cfr. Courtés (1992).

5Cfr. De Michelis (2005).

6A partire almeno da due romanzi per certi versi paradigmatici come After London di Richard Jeffreys (1885) e A Crystal Age di W. H. Hudson (1887), cfr. Suvin (1985) e Bertetti (1998).

7In Bertetti (1998).

8Cfr. Lotman – Uspenskij (1975).

9Cfr. Wolfe (1983).

10In Bertetti (2004).

11Si osservi come proprio rispetto al tema della costruzione di una comunità si possa individuare, come aveva già sottolineato Matthew Broderick (1992) a proposito della serie di Mad Max, un rapporto tra il western e il cinema postapocalittico: lì la fine del caos, l’arrivo dell’ordine e la costruzione di una nuova comunità/società, qui la fine di quell’ordine, il ritorno del caos e il tentativo di ricostruire una co-munità. Non a caso, dunque, Cormac McCarthy viene dalle narrazioni della frontiera.

12Così lo indicano i titoli di coda.


Bibliografia

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Filmografia

11’09’’01 (Youssef Chahine – Amos Gitai – Alejandro Gonzalez Inarritu – Shohei Imamura – Claude Lelouch – Ken Loach – Samira Makhmalbaf – Mira Nair – Idrissa Ouedraogo – Sean Penn – Danis Tanovic 2002).

28 giorni dopo (Danny Boyle 2002).

Cloverfield (Matt Reeves 2008).

Codice: Genesi (Albert e Allen Hughes 2010).

E venne il giorno (M. Night Shyamalan 2008).

Independence Day (Roland Emmerich 1996).

Interceptor (George Miller 1979).

Interceptor – Il guerriero della strada (George Miller 1981).

La vita futura – Nel 2000 guerra o pace? (Cameron Menzies 1936).

L’esercito delle dodici scimmie (Terry Gilliam 1995).

L’uomo del giorno dopo (Kevin Costner 1997).

Mad Max – Oltre la sfera del tuono (George Miller – George Ogilvie 1985).

Right at Your Door (Chris Gorak 2006).

The Day After Tomorrow – L’alba del giorno dopo (Roland Emmerich 2004).

Terminator (James Cameron 1984).