sorelle_mai1«Addio al mondo, ai ricordi del passato, ad un sogno mai sognato, ad un attimo d’amore che mai più ritornerà»
(Domenico Modugno, Vecchio Frac).


Sorelle mai di Marco Bellocchio e L’épine dans le Coeur (Una spina nel cuore) di Michel Gondry sono entrambe storie private e personali che arrivano ad abbracciare ben tre generazioni: zii, figli e nipoti. Composte da materiali eterogenei, attingono alla biografia dei rispettivi autori, e sono solo apparentemente “anomale” all’interno delle loro filmografie. Dal momento che, attraverso il documentario piuttosto che la fiction, la memoria o il sogno, l’invenzione o il repertorio, ambedue i film gridano (sottovoce) l’amore per l’arte del racconto.


Paesaggi mentali familiari, sospesi nel tempo, in cui scrutare l’immagine di ciò che non siamo più. Perché ciò che cerchiamo nella religiosa accumulazione delle testimonianze, dei documenti, delle immagini di tutti i «segni visibili di ciò che fu» è la nostra differenza e «nello spettacolo di questa differenza l’improvvisa esplosione di una introvabile identità» (M. Augé 1993, p.29).


Il ricordo, tra repertorio e (re)invenzione.

La rielaborazione filmica della memoria nel cinema di Michel Gondry è un lungo, e non convenzionale processo che ha origine nel suo testo più complesso e cerebrale, Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello). Una delusione amorosa cerca la sua “cura” in un bizzarro quanto irreversibile esperimento scientifico: l’azzeramento dei ricordi. Esperienze personali e sentimenti vissuti si ripercorrono in un cammino a ritroso che disvela il mistero dell’universo-Mente, con la precipua volontà di annullare dolorose reminiscenze.

In L’épine dans le Cœur, la zia Suzette compie invece un percorso di appropriazione del proprio passato. E, con lei, fa altrettanto il nipote-autore. L’anziana signora francese, che ha passato oltre trent’anni della sua vita ad insegnare ai bambini delle scuole elementari a guardare il mondo con occhi pieni di curiosità e a scoprire sempre nuove realtà (l’estetica della “maraviglia” fa parte del codice genetico della famiglia Gondry), è infatti una sorta di figura vicaria mediante cui il regista rivive, involontariamente, le tappe della sua infanzia e della sua formazione. Un’autoreferenzialità (Stam, Burgoyne, Flitterman-Lewis 1999, p. 258) biografica, che non necessariamente ne comporta una filmica – come vedremo in Bellocchio.

Sette stagioni della memoria scandiscono un’ampia dimensione spazio-temporale che si estende dal 1954 al 1980, le cui tracce vengono pedissequamente rivisitate. Suzette ritorna infatti sui luoghi del suo magistero attraversando paesi e villaggi della provincia francese. E, mentre racconta aneddoti relativi o raccoglie le testimonianze di ex alunni e maestre, la m.d.p. prova a fissare brandelli di storia e di sapere perfino laddove non esistono più le mura, le aule e i banchi di una volta.
Dietro la caduca e obliante superficie del presente, si stagliano vigorosi i ricordi: ora rievocati dalle nostalgiche parole, ora visualizzati dalle immagini di repertorio, amatoriali e, perciò, imprecise e polverose (come alcune fotografie in bianco e nero degli anni ‘60). Ad esempio, i filmini in Super 8 girati dal figlio di Suzette, Jean-Yves, ci restituiscono momenti di festa e quotidianità familiare, scorci della proprietà in campagna, tra cui i locali usati per la segheria del padre. Ma, soprattutto, pagine di vita scolastica, come le gite fuori porta, le lezioni di nuoto, la recita, in cui volti, gesti e situazioni richiamano alla mente l’incosciente gaiezza del fanciullo di Truffaut.

Ma la memoria può essere appunto rielaborata anche grazie alla creatività dell’artista. Le sette stagioni vengono introdotte dal passaggio di un trenino elettrico che, dopo aver attraversato ponti e montagne, tocca le varie destinazioni. Gondry dà sfogo al suo estro artigianale, già protagonista nell’Arte del sogno, utilizzando questa volta il plastico in miniatura realizzato dal cugino, dove sono visibili oltre alla ferrovia anche case, chiese, strade e automobili.
Ci sono, poi, due occasioni in cui l’autore mette la tecnologia al servizio della sua immaginazione (spesso goliardica) e, allo stesso tempo, del ricordo: nella prima, una breve ricostruzione animata in stop-motion ci descrive l’impervio tragitto, tra sentieri, compiuto da due becchini per trasportare la bara di un defunto al cimitero; nella seconda, alcuni allievi di oggi di una scuola di Arrigas indossano costumi speciali che, grazie alla tecnica del chroma key, li rendono invisibili.

Banali scene di vita domestica tra madre e figlio, oppure semplici rituali di una piccola comunità possono essere re-inventati (metodologia di lavoro attorno a cui è costruito Be Kind Rewind - Gli acchiappafilm) per cristallizzare minimaliste istantanee del passato. L’arena di Villemagne, abbandonata e ridotta quasi a discarica, torna a rivivere come spazio sociale e cinematografico recuperato al logorio degli anni con la proiezione di una vecchia pellicola interpretata da Jean Gabin: Tempesta di Grémillon del 1941.

Parallelamente a questa doppia concezione della memoria, registriamo un’altra interessante dinamica tramite cui esperienze ed episodi privati vengono raccontati o confessati. Squarci di vissuto si illuminano e si spengono, a seconda che nei labirintici anfratti della coscienza prevalgano luci o tenebre. E la natura, con i suoi colori e i suoi movimenti, non fa che accompagnare la narrazione. La m.d.p. indugia sui boschi grigi e sinistri che, nell’autunno del 1954, accolsero la giovane e sprovveduta Suzette, già sposata, madre di un figlio, con la propria famiglia schierata contro. La stessa panoramica su un simile paesaggio oscuro, fa da sfondo alla rievocazione della primavera del ‘62, quando nel villaggio di La Mouline irruppero i soldati franco-algerini.

Mentre, negli inserti-intervista in cui il regista interpella la propria zia sul greto di un ruscello, l’acqua scivola via limpida e scintillante, seppur tra infinti rivoli che sembrano ostacolare il suo corso. Sono i momenti più intimi di tutto il documentario, in cui la donna si mostra “senza filtri” parlando del complicato rapporto con Jean-Yves, omosessuale e psicologicamente fragile. Tra zone d’ombra fatte di lunghi silenzi, impercettibili frizioni, incomprensioni e sensi di colpa mai sopiti, dove il “non detto” può fare ancor più male delle parole, Gondry fa emergere la verità. Anche la più dolorosa: la “spina nel cuore” di Suzette è suo figlio. Prima che una fitta e riconciliante nevicata giunga, nel finale, a ricoprire quel che resta del passato.


Fantasmi e schegge di autoreferenzialità filmica.

Bobbio. La casa patronale delle sorelle Letizia e Maria Luisa Bellocchio, il vecchio paese con i suoi vicoli, le montagne dell’Appennino circostante, il cimitero. Spazi della memoria. Luoghi da cui partire o ritornare, per nascondersi o, infine, per fuggire (ma allontanarsi è come tradire e un po’ come morire). Dove il tempo sembra essersi fermato. Eppure è proprio il tempo, che scorre lento come il fiume Trebbia, a reggere il senso di un corpo filmico frammentario e disomogeneo.
Sei episodi, girati nell’arco di circa 10 anni in collaborazione con gli allievi del laboratorio di regia “Fare Cinema”, dove fiction e autobiografia dell’autore piacentino finiscono per intrecciarsi e saldarsi in un unico afflato. Come nel mediometraggio Vacanze in Val Trebbia girato nell’agosto 1978 (Bellocchio è uno dei protagonisti assieme alla moglie e al figlio), in cui «affetto, nostalgia e distanza ironica col “paesaggio dell’anima” sono tutt’uno» (Morsiani 2004, p. 24).

Una vicenda di famiglia dalle dinamiche irrisolte, quella di Sorelle Mai, in cui persone e ruoli, nomi reali e personaggi fittizi si sovrappongono: oltre alle già citate zie, ci sono anche la piccola Elena (seconda figlia di Bellocchio), seguita nel suo percorso di crescita dai quattro ai quattordici anni, e lo zio della bambina, Giorgio (il primogenito Piergiorgio). Tre generazioni a confronto – come nell’opera di Gondry in cui appare in scena anche il figlio del regista – legate dall’appartenenza più o meno forte ad un territorio, ospitale quanto respingente, solare quanto soffocante.

Una vera e propria prigione per chi, come le anziane zitelle, ha trascorso una vita di rinunce, tra le tavole apparecchiate con i centrini e ninnoli di ogni tipo, le credenze e le seggiole della sala da pranzo, dove si consuma il rito del cibo. Nel rispetto ossequioso delle tradizioni e dei valori spirituali. Un universo borghese quasi ottocentesco, pascoliano o cechoviano, a cui la m.d.p. si accosta timidamente per rivelare la fissità delle azioni e dei discorsi. Un ventre materno e matrigno in cui si agitano desideri di fuga, aspettative ma anche rimpianti, turbamenti, ossessioni e fantasmi.
Da I pugni in tasca ad oggi, l’itinerario artistico di Marco Bellocchio è costellato di fantasmi. Spiriti, ectoplasmi. E ancora, epifanie e visioni, che si materializzano anche qui, a conferma di un’ispirazione iconoclasta improntata al surrealismo e, in particolare, al mondo onirico (ad esempio quello di Buñuel). Le ombre che si rincorrono veloci sulle pareti di casa, nell’incubo del personaggio di Giorgio (ennesima figura ribelle ed irrequieta che fa parte della stessa genia di Alessandro de I pugni in tasca), sono la messa in scena del rimosso e dell’inconscio. Prefigurano la sua ansia di persecuzione: il ragazzo è ricercato da due loschi individui a cui deve del denaro, molto simili ai sicari ingaggiati dal principe decaduto del Regista di matrimoni per spiare e pedinare il protagonista Franco Elica.

Questa è soltanto una delle circostanze che rievocano il testo del 2006. Sono infatti presenti altre tre scene affini alle “originali”:1) Donatella Finocchiaro viene scelta per fare l’attrice protagonista nel film, ma non da Bellocchio, bensì da suo fratello chiamato ad interpretare il regista; 2) una delle attrici, che ha partecipato ai provini ed è stata esclusa, si presenta davanti ai responsabili del casting con un pistola finta e spara (nell’originale, una delle aspiranti alla parte della monaca di Monza prova invece a minacciare il regista-Castellitto con un coltello, ed è il padre di Bona a sparare tre colpi nell’attesa di incontrare Elica); 3) l’amico di famiglia Gianni (Gianni Schicchi, che ebbe lo stesso ruolo trent’anni prima in Vacanze in Val Trebbia), vestito in frac, si immerge nelle acque del fiume Trebbia, fino a scomparire del tutto (nel Regista di matrimoni, Gianni Cavina, nelle vesti del regista fallito e dimenticato, Orazio Smamma, decide di suicidarsi gettandosi nel mare di Cefalù).

Materiali preesistenti (viene ripreso il mediometraggio Sorelle, rielaborandolo e aggiungendovi tre nuovi episodi), immagini e figure duplicate, replicate, allusioni più o meno manifeste all’immaginario filmico dell’autore disegnano una complessa trama, fatta di specchi, rimandi e corrispondenze. Partendo appunto dal fondante I pugni in tasca, da cui vengono estrapolati alcuni frammenti. Un testo, quest’ultimo, imprescindibile, che contiene al suo interno tutte le “scene madri” del cinema di Bellocchio, l’intero suo patrimonio biografico e narrativo. Anche se – bisogna riconoscere – che al contrario di questo, Sorelle Mai non mette più in scena «la provincia italiana che resiste come luogo di grettezza», né tanto meno la descrive «con atteggiamento di irrisione, di violenza verbale ed espressiva» (Gambetti 1967, p.15). Semmai con una malinconica presa di distanza. Dal “natio borgo selvaggio”, dall’immagine di ciò che non si è più.


Bibliografia

Gambetti G. (a cura di) (1967): I pugni in tasca, Garzanti, Milano.

Morsiani A. (2004): L’argine perduto. La poetica dei luoghi e della Heimat in Marco Bellocchio, in Ceretto L., Zappoli G. (a cura di) Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio, Lindau, Torino.

Nora P. (1997): Lieux de mémoire, Gallimard, Parigi, vol. I.

Augé M. (1993): Non-luoghi: introduzione a una antropologia della sur-modernità, Elèuthera, Milano.

Stam R. – Burgoyne R. – Flitterman-Lewis S. (1999): Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano.