la_terra

Un utile spunto d’analisi del rapporto cinema-paesaggio (come vedremo, specificamente quello pugliese) appare spostandosi dalla professionale categoria di “ambientazione” all’ambito critico che, sulle tracce del Pasolini teorico del cinema, è la sintassi del metalinguaggio: la rappresentazione cinematografica del mare, di una città, di un bosco ecc., non è la rappresentazione individualizzata del mare, di una città, di un bosco, bensì della loro funzione in un quadro – in movimento – che è un sistema di simboli analogici della figurazione (e lo stesso vale per le figure e le forme umane, per la loro gestualità, o i loro distinti tratti fisionomici, i loro linguaggi e il loro agire).



I paesaggi della Puglia (in tutte le loro varietà – agli antipodi – struggenti o degradati, arcaici o modernamente disegnati, consueti o sorprendenti) in queste funzioni, nel cinema pugliese o, più precisamente, nel cinema girato nelle località pugliesi da registi di estrazione locale, possono avere due distinte caratteristiche: un valore
connotativo e un valore denotativo. Al proposito ricordiamo che, nel discorso espressivo, la connotazione è l’insieme di attributi necessariamente implicati da un termine o da un enunciato; e più precisamente è una sfumatura linguistica di ordine soggettivo che un termine o un enunciato hanno acquisito in aggiunta al significato di base (ad esempio: si ha uguale significato e diversa connotazione per due termini universali come mamma e madre). E la denotazione è il significato oggettivo di un’entità lessicale, che non contiene alcun elemento soggettivo o affettivo determinato dal contesto (almeno non lo contiene esplicitamente, lo sottende).

Allora connotativo è in gran parte il cinema pugliese, in particolare quello dell’antropologia socio-individuale di Pozzessere (Verso sud), o di Winspeare e di Alessandro Piva. Per il primo, la Puglia – Taranto o la Magna Grecia – è la connotazione della crisi epocale, della catastrofe umanitaria e ambientale provocata nel Mezzogiorno dall’irruzione della industrializzazione selvaggia. Per Winspeare (da Pizzicata a Sangue vivo, dal Miracolo a Galantuomini) la Puglia è la connotazione territoriale di una vicenda culturale ed emotiva endogena, è il connotato della musica e del sangue, della irrefrenabile musicalità conservata da eredità e miti arcaici trapiantati nella drammatica realtà delle presenti generazioni. E per Piva (LaCapaGira, Mio cognato) la Puglia, e più specificamente, contraddistinto da una particolare durezza del dialetto, il paesaggio suburbano barese, è la connotazione materiale di una sorta di degrado esistenziale banalmente governato dalle brutture della mafia e dalla disperazione sociale pressoché inconsapevole. Altrettanto vale per La riffa di Francesco Laudadio, ma qui i luoghi e gli ambienti sono per stilizzazione quelli praticati dalla medio-alta borghesia corrotta del capoluogo.

Tuttavia è importante anche tener conto della Puglia che nel cinema manifesta un distinto valore denotativo. È la Puglia di quasi tutte le ricognizioni dei registi non pugliesi, come il Pupi Avati della dolce follia coltivata da Girolamo, il protagonista della Seconda notte di nozze, o l’Ozpetek di Mine vaganti. Ma è la Puglia soprattutto di un regista che, per primo e in proprio, sembra avere scoperto – a parte la straordinaria esperienza d’avanguardia dell’assoluto denotativo e antifilmico di Carmelo Bene – i modesti tesori paesistici e gli incisivi connotati antropologici a valenza universale di questa sua terra: Sergio Rubini da La stazione del suo esordio in poi.

La sua Puglia – come del resto la sua bizzarra e disomogenea koinè linguistico-dialettale – è infatti sempre la metafora delle radici e del Sud del mondo, riferimento di una storia artistica che ha la costanza di una generale investigazione di senso, e che passa via via – alludiamo al percorso della sua filmografia – attraverso le forme del racconto di formazione e della scoperta della modernità: del suo fascino e del suo irrimediabile conflitto con il passato, della crisi e spaesamento della famiglia e della sua ambigua ricomposizione nel nome di una preesistente logica solidale se non patriarcale. La Puglia, in altre parole, è per Rubini un tenero simbolo generale e perciò anche, paradossalmente, delocalizzabile. Con le sue location inedite e tuttavia discrete, magiche ma anche ordinarie, ora solari ora dimesse, non si tratta della Puglia delle superbe cattedrali o dei castelli medievali o degli incantevoli trulli: essa men che mai è folklore, o raffinata cartolina patinata, e neppure referente sociologico. È solo accorata e intrigante filiera di immagini, appunto, intensamente, significativamente denotative di una sorta di work in progress (sette film su dieci da lui girati in Puglia), da cui, per inatteso paradosso, il cinema di Rubini può anche non sentirsi – prima o poi – necessariamente condizionato.

Nella Stazione allora – il suo primo film – Rubini attiva il suo giovane protagonista mentre affida a qualche scena nella sua casa, che condivide da single con la madre ipocondriaca ma anche ossessivamente premurosa, la connotazione esistenziale dei suoi anni precocemente abitudinari e in qualche modo ingrigiti in un ambiente meridionale tipicamente intriso di arretratezza culturale; e assegna una funzione denotativa agli spogli interni dell’ufficietto di provincia dove quello quotidianamente lavora come capostazione, già claustrofobici e squallidi di per sé: a denotare, su un versante parallelo di immagini, una solitudine inconsapevolmente quasi viziosa dell’anima e un destino però, si direbbe, cordiale di incomunicabilità ingombrata da cose e gesti di sempre. E gli esterni – la strada, che partendo dal paese porta Domenico la sera, quasi ogni giorno, alla anonima stazione nascosta nella campagna del territorio circostante; o il piazzale antistante allo stabile ferroviario che, sempre deserto, accoglie nella desolazione treni quasi solo in transito, e di notte è flagellato da una pioggia sorda e reso impervio da un buio senza qualità, mentre il mattino successivo si presenta attonito sotto un cielo pulito come il cuore del povero impiegatuccio che ha scoperto per un attimo l’amore – sono luoghi anonimi di sentimento inespresso, che, dopo, al momento dell’inevitabile distacco dall’avventura inaspettata di una notte, sommerge il protagonista, lasciandolo senza parole al gesto per nulla romantico del mestiere di chi semplicemente, per tutta la vita, dà il via a un treno (che ora si porta lontano l’imprevisto stupore per la modernità).

D’altra parte, gli echi rapidamente popolari della poesia delle novelle secentesche di G. B. Basile scivolano su un territorio appulo-lucano efficacemente senza storia, ricreando, secondo la giusta cadenza della favola un sorprendente e gioioso Viaggio della sposa: e lo trasferiscono in un racconto di iniziazione in cui nobili e plebei ritrovano, con l’amore improbabile, la vicenda venturosa dell’attraversamento di storie passate e di leggendarie disposizioni di contrade ancestrali al fantastico. Il fiabesco poi, con una spinta decisamente menandrea a equivoci d’amore battezzati da sommari filtri magici, si fa sorprendentemente moderno in un Salento di mari trasparenti, di assolate località rurali e di intriganti misteri, nel film L’anima gemella: la gratuita commistione di baresità e di salentinità è metafora anche qui, con la complicità di luoghi stranianti, di una verità che sfugge alla menzogna della narrazione per via di franche sentenziosità dal sapore classico (come quella finale del barbiere-fattucchiere).

Del resto i paesi delle storie di Rubini non hanno nomi che corrispondano realisticamente agli abitati di riferimento (L’uomo nero): i nomi sono quasi scelti a caso nella toponomastica regionale e i fatti narrati possono spostarsi senza difficoltà, indifferentemente, da un luogo all’altro. La passione per la piccola patria sfuma, così, nell’iniziazione adolescenziale al dolore e al distacco per il sogno della città, a emozioni e vertigini senza confini di spazio e di tempo (Tutto l’amore che c’è). E la famiglia inscena il miracolo antropologico dello sradicamento (L’amore ritorna) e poi del ritorno alla riconquista di un’omertà del sangue che segna i limiti che il nomos arcaico pone ai conflitti e alle trasgressioni dell’oggi (La terra).

Insomma il mondo di Rubini – il mondo figurato delle sue radici – si presenta sempre come metafora universale, e sfiora soltanto la connotazione storica. È bene ripeterlo: è piuttosto antropologia che quasi inavvertitamente trasale appunto nella metafora e nell’analogia delle passioni. O ancor più semplicemente – come s’è detto – dei sentimenti.