Una ricognizione nell'universo femminile del cinema horror degli ultimi anni

Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di gender gap e disuguaglianza di genere nell’industria cinematografica e nei film. Film che trasmettono sentimenti, stati d’animo, che fanno orrore o piangere; film di ogni tipo in cui poco spazio, o uno spazio per lo più marginale, di puro supplemento, è dedicato all’ideazione e caratterizzazione di personaggi femminili. E se è opinione ormai condivisa che il processo di emancipazione delle donne nato negli anni Sessanta abbia radicalmente modificato la visione e l’immagine femminili nel cinema hollywoodiano e indipendente, oggi, sulla scia dei neonati movimenti, sembra aver preso di nuovo vita, riattualizzandosi, un dibattito più che decennale e che si rifà, guardando specialmente al cinema horror e slasher, alle teoriche queer, femministe e di genere degli ultimi decenni del secolo scorso.

Interrogandosi sulla questione del piacere visuale, per molte studiose le problematiche interpretative emergono quando ci si sofferma sullo sguardo femminile e sulla figura della spettatrice: Linda Williams, riferendosi all’horror classico, sostiene l’impossibilità per una donna di sentirsi minimamente coinvolta da una storia in cui sue coetanee finiscono per essere brutalizzate, assassinate o poste a insignificante ornamento della storia.

Ci sono invece studiose come Judith Halberstam e Cristina Isabel Pinedo che, notevolmente influenzate dalle teorie queer degli anni Novanta e dal femminismo della Terza ondata, stando a quanto scrive Valerio De Simone in Final Girl. L'eroina dell'horror e dello slasher, cercano di sdoganare il primato eterosessista costruito intorno a determinati film da parte di Williams e altre, assumendo un punto di vista più inclusivo, “ibrido” e meno dogmatico. Partendo da una differenziazione tra gender, il complesso di norme socio-culturali e i modelli di ruoli, aspettative e vincoli cui ciascuno è sottoposto e sesso biologico, Halberstam vede la final girl – colei che sopravvive di solito alla furia maschile o a una qualche calamità (Alien di Ridley Scott, Ms. 45 di Abel Ferrara, Halloween di John Carpenter, I Spit on Your Grave…) – come una nuova creatura e soggettività politica che delinea un modo inedito di pensare la corporeità e i suoi limiti: una specie di cyborg che rifiuta il senso (o una narrazione) impostole ricercandone un altro, al di là di ogni categorizzazione e binarismo.

Seguendo l’impostazione di Halberstam, Pinedo definisce diversamente questa figura. Si parla di Surviving Female, ossia colei che riesce a sopravvivere: acuendone l’importanza e quindi scontrandosi con la visione semplicistica per cui horror e slasher siano unicamente espressione della violenza maschile sulle donne, la studiosa sottolinea l’influenza narrativa e il rilievo politico della figura e la peculiarità di sue future declinazioni, di assassine psicotiche e spietate alla De Palma o Verhoeven.

Poste queste premesse, sarebbe interessante analizzare in che modo le donne dietro la macchina da presa abbiano applicato, tanto più sovvertendole e destrutturandole, certe regole e dinamiche di rappresentazione, o sotto quale veste certe figure come la final girl/surviving female, o spettri di vampiri\vampire, ritornino sugli schermi, sviluppandone anatomie e ruoli da una prospettiva ulteriore. In termini di final girls pensiamo soltanto al recente Revenge di Coralie Fargeat, in cui una donna (Jennifer, non a caso, come in I spit on Your Grave) dopo essere stata violentata e scaraventata da una rupe – morta, quindi – si risveglia e va alla ricerca dei suoi aguzzini, uccidendoli uno ad uno. Di specifico Coralie Fargeat traccia il senso di una rinascita mistica, nel deserto, e una forma di rivendicazione di sé che passa per la messa in scena di un corpo prima torturato e distrutto e poi fonte di deturpazione estrema, consapevole di un solo e primitivo bisogno: di vendetta e sopravvivenza contro machismi e predeterminati ruoli di genere, vicinissima, in questa caccia e fuga simultanee, al personaggio di Furiosa in Mad Max: Fury Road.

Difficile non pensare poi alla famiglia di vampiri vagabondi di Near Dark di Kathryn Bigelow. Alle note taglienti e aliene dei Tangerine Dream che conducono la visione e il viaggio tra le strade e praterie deserte di un imprecisato entroterra statunitense. In questo film del 1987 dall’afflato quasi post-apocalittico, Bigelow costruisce uno spazio e tempo liminari, di continui amplessi tra morte e vita che contraddistinguono il suo cinema e le sue immagini mai dome, qui lasciando collimare immaginario western e mitologia vampiresca. La stessa compresenza che si lascia attraversare in A girl walks home alone at night di Ana Lily Amirpour in cui la vampira protagonista vaga da sola su uno skateboard e con il chador in mezzo a una città silenziosissima, ipnotica, lei, ma eternamente sola. I vampiri di Bigelow, cineasta materica e dirompente, non solo cercano le carni e il sangue umano da dilaniare per tenersi in vita; non c’è solo bisogno di incutere timore e angoscia gli uni verso gli altri, di quell’iniezione di paura dell’altro da sé ridotta in questo caso quasi a macchietta. Come se i vampiri stessi fossero a conoscenza del destino che gli spetta, dell’impossibilità dell’incontro, della consapevolezza di un’assoluta e sconfinata solitudine, nonostante la presenza del gruppo: la dignità umana e "umanistica" del non-umano, come per Amirpour, d’altra parte. Nelle derive e dispersioni del paesaggio in cui si trovano avvertono anche e soprattutto bisogno d’amore. Di autentico calore di corpi e anime umane ancora corruttibili, com’è costruita la storia d’amore tra Caleb a la fragilissima Mae. La corsa finale contro il tempo, contro il sole, il giorno - la morte - che stava avvicinandosi impietosa.

Se immagino spazi di confine, di intrusioni e riverberi di identità parziali e contraddittorie, mostruose, non posso non figurarmi in progressione tutto il cinema di Claire Denis, e in questo caso l’immagine di un’esangue Beatrice Dalle sul ciglio di una strada, alla ricerca, anche lei, di cibo e sangue. Ma anche di amore, forse. In Trouble every day, Shane Brown – Vincent Gallo nel ruolo è perfetto: pallido, sanguigno, sempre all’erta – sfrutta il viaggio di nozze parigino per rintracciare Léo Sémeneau, brillante neuroscienziato ripudiato dalla comunità per alcune sue ricerche sulle conseguenze dell’uso di alcune piante amazzoniche per “curare” i disturbi della libido. Gli effetti su sua moglie Coré condanneranno la donna ad una continua e incontrollata ricerca di piacere, assoluto e cannibalistico. Con una storia i cui caratteri torneranno in film come Kotoko di Shin'ya Tsukamoto o il meno noto Dans ma peau di Marina de Van, Denis sonda i limiti e gli sconfinamenti della corporeità umana negando allo spettatore il piacere di riflettersi nei corpi rappresentati, non normativi e vulnerabili: non c’è incontro spettatore-immagine nel senso più rassicurante e classico dell’espressione e i codici cinematografici e di genere cui si fa riferimento vengono decostruiti e ripensati.

Denis guarda al Tourneur di Il bacio della pantera (e forse anche al remake di Paul Schrader nell’estetica e immediatezza dei corpi) ripensando la storia in un’ottica ancora intimista ma più pulsionale e plastica: cambia la rappresentazione degli stati d’animo e delle paure dei protagonisti che in Trouble every day si fanno materia viva e pulsante. In questo senso la riflessione di Denis riguarda anche la suscettibilità e vulnerabilità umane in relazione al corpo e su come ci si approccia all’intrusione, a qualcosa – come un virus – di incomprensibile e sregolato alla stregua della malattia di cui resta vittima Coré. La sinuosità dei passaggi da una sequenza all’altra o delle improvvise manifestazioni di immagini orride e mortifere nella mente di Shane si riflettono nell’utilizzo ravvicinatissimo e sensuale della mdp: nel riprendere l’iconica scena in cui Coré divora il volto di uno dei suoi amanti, Agnès Godard si situa a una distanza minima dai corpi dei protagonisti in modo tale da restituire tutta l’urgenza dell’immagine così com’è, senza tagli o ellissi che avrebbero spezzato il profluvio di sensazioni (anche grazie alla musica) che fuoriescono dall’intera sequenza.

Non c’è tuttavia quasi mai risposta alle domande della regista francese; o meglio, mai una risoluzione definitiva poiché sono la ricerca e specialmente il mistero che ne consegue, risultanti di un atteggiamento curioso e appassionato, di un entusiasmo pronto a ridefinirsi di continuo rispetto a ciò che le si mostra, i catalizzatori dell’approccio di Denis sulla realtà, e lo vitalizzano, incontro dopo incontro, costituendone l’essenza. L’effetto è spesso opaco, obnubilato, e sta allo spettatore scegliere se penetrare questi arcani, cosiddetti «sortilegi del fuori-campo», riprendendo l’espressione del critico Jean-Michel Frodon, riconoscendone risorse e potenzialità o se fuggirne, lamentandone l’estraneità.

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