Da un’acidula melagrana, squarciata e sanguinante, può nascere un pesce rosso che ha fagocitato due tigri pronte ad avventarsi su un innocente corpo femminile nudo, mollemente adagiato tra cielo e terra. Le creature infernali e paradisiache dipinte da Dalì nel Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, del 1944, evocano il tormento e l’estasi della natura umana, e le pulsioni implosive ed esplosive del desiderio.

È la storia dell’occhio, avido di visioni e di corpi, bramoso di possedere e sbranare con denti aguzzi, penetrando, disfacendo e strappando la carne fino a quando non si arriva a ridurla a una forma diversa, ematica e fluida. È desiderio cannibalico, non nutrimento ma possesso, fine a se stesso, la iubris che sfida il volere superiore delle divinità, divorare per il piacere di smembrare e violare la somma creazione.

«…Siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell'Altro, e nient'altro che desiderio del suo corpo» (Jacques Lacan, Seminario X, L’angoscia).

In Revenge di Coralie Fargeat, in un vischioso turchese ferino la luce inonda il paesaggio di un lugubre presagio di morte. La calura riflette il cielo in mille frammenti di vetro sospesi nel deserto, desolato e desolante, colmo dell’eco tonante del vuoto. Il rombo del motore di un elicottero, i colpi secchi delle sue pale squarciano il silenzio e l’aria. Il movimento del veicolo è lento, ben centrato nell’inquadratura che ne svela l’arrivo come l’annuncio di un nubifragio condensato. Richard (Kevin Janssens), giovane e rampante quarantenne, sposato e padre di famiglia, in compagnia della giovanissima e zuccherosa amante Jen (Matilda Ingrid Anna Lutz), scendono dal velivolo per raggiungere la villa dove trascorreranno insieme qualche giorno, prima che lui parta per la consueta battuta di caccia con gli amici di sempre. Lontani dalla città, dagli obblighi familiari di lui, per dedicarsi l’uno all’altra, sono sorpresi dall’arrivo anticipato dei due amici, che interrompono l’idillio.



Jen è bella, “è troppo bella”, come più volte afferma Richard, desiderata e desiderante di vita, è quella forma di bellezza che si vuole possedere, strapparne un brandello e appropriarsene con ogni mezzo. Jen è un movimento tellurico sconquassante e, come sottolinea Baudrillard, nel suo testo La seduzione, a sedurre l'uomo non è mai la bellezza naturale, ma la bellezza rituale. Perché questa è esoterica e iniziatica, mentre l'altra è solo espressiva. Perché la seduzione sta nel segreto creato dalla levità dei segni dell'artificio, e non in un'economia naturale di senso, di bellezza, di desiderio. L’artificio magico in Jen è una leggerezza infantile, gioiosamente audace nell’approcciarsi al mondo e al carnivoro universo maschile, mondi contrapposti descritti da Coralie Fargeat attraverso cliché esasperati, ma estremamente funzionali al racconto. Mentre la ragazza effonde tutta la propria morbida energia seducente a beneficio e supplizio dei tre uomini, sul televisore della villa ruggisce la feroce irruenza del wrestling e delle corse automobilistiche. Approfittando della momentanea assenza di Richard, Jen viene stuprata da uno dei due nuovi arrivati. L’altro amico osserva con indifferenza la violenza in atto, l’inquadratura si stringe sulle sue fauci che lentamente stritolano e dilaniano del cibo spazzatura, e si torna alla tigre daliniana.

Il dolore è il riflesso in una lacrima, specchio concavo, colmo di angoscia, nel suo spazio umido, custode di memorie cupe e tormentate, luogo di transizione e mutazione crisalideo. Sofferenza, umiliazione e abbandono si schiudono in quella culla artaudiana, pregna di angoscia, dissestando il quotidiano, l’innocenza e la leggerezza della bellezza. Incapaci di affrontare le conseguenze del gesto compiuto, i tre uomini tentano di eliminare la vittima dell’abuso, unica colpevole dei loro problemi, ostacolo al libero flusso delle proprie pulsioni. Il corpo è il luogo del martirio, usato, abusato e trafitto, che attinge dal dolore per trasmutarsi in forma nuova, scomposto dalla gravità della violenza, perde la sua eterea frivolezza e si fa terrigno, consapevole della necessità di vendetta.

«(…) E aver raccolto il deserto nel cavo della gola
Aver nutrito col sangue l’indifferenza delle pietre
Aver assunto la leggerezza della nebbia
Per confondere ciò che l’assenza ha lasciato
nei miei occhi
Aver piegato parole come ginocchia
Per colmare lo scarto esiguo tra due onde
Aver fissato parole di una solitudine nuda
Come un cuscino sgualcito dall’assenza
Aver scavato parole per alimentare le vene
e disciolto ogni vena per ricomporla in parola
e da labbra umane essere dissolto in suono».

Franco Ferrara, in Questo intendevo dire, evoca la semena florenskijana, che nel film gronda liquidi ematici. La rinascita si compie con un passaggio sciamanico, attraversando una realtà sospesa, per punire e mondare il sangue versato, perché non si può morire per troppa bellezza, né per essere un leggero soffio di brezza. I colori fluo, i filtri caldi della fotografia e la scenografia illuminata da tocchi di saturazione pop, rimandano ad alcune opere refniane, come Only God Forgives o Neon Demon, sgranando ancora di più l’immagine che si fa mortifera in questa esasperazione cromatica. La colonna sonora, composta da Robin Coudert, emerge dal profondo degli anni 80, su un tappeto sonoro caratterizzato dal synth, in bilico tra le sonorità Carpenteriane e quelle più recenti di Cliff Martinez. Il film di Coralie Fargeat, come annunciato dal titolo, si inserisce nel controverso filone dei rape and revenge, il cui capostipite viene considerato L'ultima casa a sinistra, del 1972, di Wes Craven. L’esordio registico craveniano si avvaleva di una campagna pubblicitaria che recitava: “Se non volete svenire, continuate a ripetervi: è solo un film, è solo un film, è solo un film…”, puntando espressamente l’attenzione sull’acme violenta dell’opera, scioccante e disturbante per l’epoca. Qualche anno prima, nel 1969, Fernando Di Leo aveva girato I ragazzi del Massacro, tratto dalla penna affilata di Giorgio Scerbanenco, in cui la violenza sessuale e l’uccisione della maestra di una scuola della periferia milanese da parte di "ragazzi di vita" di pasoliniana memoria, rispecchiavano quello stesso clima violento, feroce e furioso che si respira nel film di Craven. La vendetta femminile tornò a essere raccontata nel 1978, in maniera dura e cruda, in I spit on your grave, di Meir Zarchi, arrivato in Italia con il titolo Non violentate Jennifer.

Dialoghi scarni e volgari, riprese volutamente realistiche e dal taglio minimalista, atmosfere cupe sono le caratteristiche del film di Zarchi, riflesso del suo tempo: una risposta al perbenismo della provincia americana, in contrapposizione al fermento di quegli anni, in cui trasgredire era d'obbligo. Le donne lottavano per la parità dei sessi e la tv mandava in onda i volti insanguinati e i corpi dilaniati dei soldati che combattevano in Vietnam. Erano anni di grande trasformazione, gli anni in cui era lecito osare e sconvolgere, gli anni in cui le menti si aprivano al vento del mutamento.

La celebrazione del cinema di genere da parte della regista si nota non solo nella scelta della matrice rape and revenge, riferimento del film anche nella costruzione classica dell’intreccio narrativo, ma anche nei numerosi richiami a pellicole cult, come l’uccisione di uno dei tre sodali con lo squarciamento degli occhi, di fulciana memoria, solo per citare un esempio.
Revenge, di Coralie Fargeat, porta in scena un femmineo in cerca di riscatto, libero di esprimersi e di assecondare la propria fusis, che impone di purificare il machismo imperante con ettolitri di sangue. Una rinascita mistica in un non luogo, come il deserto ferrariano, in cui le lacrime, le grida strazianti, rimangono inascoltate, si perdono nel vuoto. In quel nulla turchino e mortifero la domanda di Richard, “perché voi donne dovete opporre sempre resistenza?”, si muta nell’imperativo di Jen, novella Jennifer Hills, che tra le vampe del fuoco e i funghi allucinogeni, da vittima cambia la sua forma e rinasce fenice. Chi è la tigre daliniana pronta ad azzannare le prede?

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