In una delle tante interviste rilasciate durante la promozione di Raw, Julia Ducournau dice che, per quanto la riguarda, un coming of age non c’entra niente con l’età: «Può accadere in ogni momento dell’esistenza. Può avvenire con la prima gravidanza, sia per una madre che per un padre, o quando un uomo perde i capelli, o quando una donna entra in menopausa». Poi dà la sua personale definizione: «È un punto di svolta nella vita, in cui il fatto che l’integrità del tuo corpo cambi ti obbliga a mettere in discussione te stesso e la tua identità».

Eppure è alla pubertà e all’adolescenza che l’autrice torna, almeno finora, nella sua breve filmografia: il corto Junior (2011), il film televisivo Mange (2012) co-firmato con Virgile Bramly, e naturalmente Raw (2016, titolo originale Grave), tra i più apprezzati “horror” degli ultimi anni, premiato col FIPRESCI alla Settimana della critica di Cannes, nominato a sei César, vincitore di vari festival internazionali come quelli di Londra e Sitges. Storie di mutazioni, di metamorfosi, in cui il passaggio d’età è inestricabilmente legato a una sconvolgente trasformazione corporea, e in cui il cibo, l’atto del nutrirsi, anche e soprattutto disfunzionale, giocano un ruolo cruciale.

Un tomboy che si tramuta in una ragazza, cambiando letteralmente pelle come farebbe un serpente; una donna che nasconde un passato d’adolescente bulimica e bullizzata; e Justine, teenager timida ma precoce, ammessa al primo anno di veterinaria, vegetariana da sempre che si scopre cannibale, come sua sorella maggiore Alexia. La proiezione di Raw al Festival di Toronto è diventata celebre e virale, perché due spettatori si sono sentiti male e gli organizzatori hanno dovuto chiamare l’ambulanza; ma la notizia, che si è ingrossata un report dopo l’altro fino ad assumere connotati da leggenda metropolitana, stupisce soprattutto perché la forza dello sguardo di Ducournau sta nella distanza, nell’asetticità. “Chirurgico” o “scientifico” sono aggettivi che vengono facilmente alla mente, e di cui l’autrice è pienamente consapevole: ama raccontare di essere figlia di dottori (e non specializzazioni qualsiasi: sua madre è una ginecologa, suo padre un dermatologo) e di aver beccato in tv, per caso, da bambina Non aprite quella porta, e di averlo seguito fino alla fine non con terrore o disgusto, ma con distaccata e analitica curiosità.

Per Raw la regista sceglie l’ambientazione di una scuola di veterinaria, e filma le procedure mediche sugli animali con interessato rigore: si tratta, tra l’altro, di riprese dal vero, come quella della sequenza in cui il cavallo viene sedato, d’indiscutibile potenza nel restituire la magnificenza dell’animale che viene piano piano ridotta a totale e inerme passività. Non è sottile, nei suoi temi, Ducournau: non le interessa. La passione per il body horror saldato al racconto di formazione si appoggia naturalmente a una lunga tradizione cinetelevisiva (e non solo), da Carrie (cui è difficile non pensare nel vedere Justine inondata di sangue durante uno dei crudeli riti d’iniziazione del college) a Ginger Snaps, Teen Wolf, The Craft, Buffy, Jennifer’s Body, Teeth (chiaramente diversissimi nello stile e nei sottofiloni cui appartengono, ma attraversati tutti dal filo della metamorfosi mostruosa e/o animalesca). La conseguente ibridazione tra più generi – l’autrice ci tiene a sottolineare che i suoi non sono mai horror puri, non hanno nessuna intenzione di spaventare, semmai di disturbare – rivela una propensione per la commedia, oltre che per la tensione e il perturbante.

Il collegamento tra un corpo mutato, improvvisamente incontrollabile nella fame e nel desiderio, corrisponde inoltre a un risveglio sessuale troppo spesso negato sullo schermo alle protagoniste femminili, la cui metafora in Raw è più che cristallina. È il modo in cui Ducournau sa mettere in scena le sue storie a infondere loro forza, e nuova profondità: il controllo sulla gestione di corpi e spazi – in Raw il lungo, affollatissimo, sudatissimo e complicatissimo pianosequenza durante la prima festa si contrappone e dialoga con i campi lunghi delle geometriche architetture di cemento della scuola, lasciando nell’aria la domanda «chi è che si nutre di chi?» – domina l’ambizioso eccesso di “carne al fuoco” (perdonate l’involontaria battuta); il proficuo sodalizio con la giovane attrice Garance Marillier ci ha già consegnato una promessa della recitazione da tenere d’occhio; e la passione per i dettagli più triviali, disgustosi e allo stesso tempo universali del nostro fisico dà un’inedita faccia umana alle parole gore e splatter.

In un’altra intervista di quel tour promozionale, Ducournau si è rifiutata di indicare la sua “regista femmina” preferita: «Risponderò quando ai registi maschi si inizierà a chiedere qual è il loro regista maschio preferito». Ed è comprensibile la frustrazione per l’insistenza di stampa e media sulla sua identità di female director, e su quel che significa in relazione al film, oltre al timore di essere automaticamente inserita in un trend, in una moda («come se fosse qualcosa destinato a passare»). Perché l’idea base di Raw deriva da un ribaltamento di prospettiva profondamente umano, indipendente dal genere: proviamo a immaginare un film sul cannibalismo in cui il cannibale non è l’altro, non è de-umanizzato, ma al contrario è profondamente, intimamente, carnalmente umano? Ma è certo anche profondamente liberatorio, da un punto di vista femminile e femminista, seguire ed empatizzare e (indipendentemente dal genere) identificarsi con una giovane donna che sanguina, vomita, si gratta, cambia pelle, s’avventa su cibo e sesso, tenta di fare la pipì in piedi, si misura col terrore di se stessa e del mondo, s’infila e prova diverse identità, si lascia travolgere dal proprio desiderio per poi prenderne le misure, e infine rifiuta la logica determinista che ci costringe a immagine dei nostri genitori o dei nostri (normativissimi) pari. Perché al fondo Ducournau cerca di raccontarci la complessità e l’importanza di scegliere: la libertà di diventare se stessi, e la responsabilità che comporta essere quel che si è.

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