A Dakar, lungo la riva dell’Oceano, una irrisolta storia d’amore tra due giovani senegalesi, che si avvolge in una trama in cui, nella seconda parte, una straordinaria dimensione, in qualche modo al di là dell’onirico, inquieta e dà un accento di particolare tenerezza alla conclusione sospesa (Atlantique, Grand Prix a Cannes nel 2019, della regista di formazione francese, esordiente nel lungometraggio, Mati Diop). Lo scenario è dato da cantieri e strade di un sobborgo segnati dallo squallore di un’edilizia sistematicamente incompiuta, tipica di tante periferie del terzo mondo; intanto una torre ultramoderna svetta sul disordine diffuso.
Il film parte da una consueta vicenda di conflitto sociale tra operai non pagati da quattro mesi – pronti però a partire, dal mare per la Spagna – e un padrone, che nel frattempo non appare: è la modernità dell’arretratezza provocata da un distorto sviluppo senza progresso delle periferie sociali. I canti ancestrali con cui gli operai tornano a casa sui camion sono solo un provvisorio antidoto e un’accorata distrazione, appena segnalata dalla condizione subalterna di disperati. L’incontro di Suleiman – uno di essi – con una ragazza, Ada, incentrato subito in un primo sguardo tra i due, mentre, in pieno centro, li divide il rapido passaggio di un treno (particolarmente denso di significato), è consacrato da un prologo di dolci baci. La coppia però è cacciata via da un anfratto del solito cantiere in abbandono dalla minaccia oltraggiosa di un custode, che getta l’insulto sul loro incontro associandolo alla parola “bordello”. Intanto li circonda, come accadrà sempre per questa comunità in tutto il corso del film, una luce intrisa di polvere rugginosa (prodotta dalle costruzioni e dalla sabbia del mare), che sfuma angosciosamente, con l’afa costante, l’insieme dello spettacolo degli “esterni”. Suleiman non tornerà per l’appuntamento serale e partirà, come si dice, per un viaggio verso l’Europa, con un gruppo di migranti destinati quasi naturalmente a soccombervi. Ada, invece, di umili origini, promessa sposa dai suoi per un matrimonio inteso come ascensore sociale, viene in breve coinvolta nel cerimoniale di una ritualità religiosa fin troppo compita; ma anche da rigidi principi familistici che, anche qui, in Africa, ne trascurano l’autonoma dignità di giovane donna.
Tuttavia, la sera delle nozze, quando Ada è portata di fronte all’ostentazione grossolana di una falsa eleganza di ricchi, la nuova abitazione è improvvisamente invasa da un incendio, mentre sua sorella l’avverte che Suleiman è stato visto nei dintorni, provocando così l’indagine di un ispettore di polizia, il quale, si scopre, è preda, dal suo canto, di una sorta di febbre minacciosa, veicolo di una strana malattia che colpisce contemporaneamente anche un gruppo di ragazze (tutte le giovani donne sono presentate, d’altronde, sempre come quasi esclusive frequentatrici, di notte, di affollati, magici pub sul mare: legate da un indistinguibile incantesimo). È del resto il mare e i suoi straordinari tramonti (la vastità – che s’immagina – irraggiungibile dei suoi confini, le sue onde), che è già lì pronto a sostituire misteriosamente lo squallore: esso è soprattutto un miraggio, il luogo dell’addio e dell’avventura, ma anche della morte. Nell’Africa profonda, il sole vi s’immerge, e la luna intanto contempla, ferma, inspiegabilmente dall’alto, nelle ore notturne, donne, uomini e cose: mare, sole e luna, simboli e archetipi essenziali di un primitivo senso della vita che non intende mai spegnersi. E nel quale – uno spettacolo da sempre persistente – sa accogliere come giusto fondale le tenebre che legano la realtà al surreale (quasi un sogno di fantasia, che è occasione, nel film, di giusta vendetta sociale: per esempio, anche qui, per i soldi della retribuzione non corrisposta da un corpulento e rozzo proprietario a delle operaie).
A questo punto però si registra la svolta del film, giacché l’ispettore di polizia (tra la polizia e il proprietario del cantiere, al di sopra delle sue buone intenzioni, vi è un qualche equivoco legame), nel delirio virale che ne confonde le azioni, da un lato, in un incontro con Ada, pare sostituirsi, per soddisfarne il desiderio, al fantomatico Suleiman; e, dall’altro, contagia appunto quel gruppo di operaie stranissime: sembrano uscite da una tomba come zombi, ma non vi sono mai entrate, mentre sono pronte a farlo dopo essere state pagate dal padrone, da loro costretto a prendere il ruolo di becchino. Tutti diventano allora protagonisti di sogni e surrealtà, che si confondono quasi a raccontare in un altro modo la vita – difficilmente decifrabile, così, tra morti viventi e vivi desideranti –. E le loro sono storie di fantasmi, in cui però resta l’evidenza di consuetudini borghesi come la visita del ginecologo per Ada che rifiuta il matrimonio, o l’obbediente rito matrimoniale dei credenti musulmani.
L’insieme è tenuto dai colori più intensi e fantastici, e attraversato da punti e sfreccianti paillettes di luce verde, o dall’ineffabilità di tramonti e di visionarie chimere, come in un luogo magico di improvvise e inspiegabili mutazioni. La fine è affidata a un sentimento soddisfatto – della protagonista – e tuttavia sempre anelante, raccolto da un reale che giunge a trascendersi nell’arcano.