Il procedere per apparizioni, oniriche o ipnagogiche, improvvise o imbricate e diffuse nell’ambiente quotidiano, diventa per Fellini una cifra stilistica che, a partire prima da Otto e ½ e poi, in modo più sperimentale (soprattutto in senso cromatico e in rapporto al gioco delle ombre e delle penombre), da Giulietta degli spiriti, si coniuga con l’altro lato, con l’altro mondo, con un aldilà del tempo e dello spazio, dove si svolge il lavoro dell’inconscio, del rimosso. Ciò significa che l’apparizione è sempre revulsionata nel suo versante d’ombra.

Giulietta degli spiriti è il film delle ombre per eccellenza. Non si tratta tanto di fantasmi, di spiriti, di insorgenze dell’altra dimensione, quanto della possibilità di vedere un rovescio del reale. Di rovesciare puntualmente la mise en scene e il plot. A partire da questo film Fellini opera una sistematica rottura interna del plot (che qui è, solo a livello di plot e volutamente, quanto di più commedico e appiattito sul narrato borghese: una storia di corna). Ciò che si racconta, e cioè il prendere coscienza di una donna borghese di quanto il suo vissuto sia una rimozione continua (soprattutto dell’eros e della femminilità), è soltanto la scorza di ciò che preme sul visivo. La vera visione, il vero film, il vero percorso significante, emerge metodicamente dall’ombra.

Fin dall’inizio ci si avvicina (con un carrello lento in avvicinamento) a una immagine del quotidiano, a uno spazio familiare, che però è immediatamente reso perturbante. La “casetta” dove vive Giulietta con il marito, bianca e linda, con il suo cancello che immette in un giardino ben curato, non sembra appartenere al reale ma a una reverie, all’immaginazione fiabesca che percorrerà tutto il film. Eppure questa casa è la casa delle ombre. È in questo cerchio magico, in questo hortus conclusus, che si convocheranno le immagini spettrali rimosse da Giulietta, fino ad invadere ogni angolo dello spazio nel finale. Come nella fiaba della Bella e la bestia (e nel suo archetipo che è Eros e Psiche) la dimora inquieta contiene in sé il mostruoso, anche nel senso di qualcosa che attende solo di mostrarsi, di prendere forma sottraendosi alla luce ed emergendo dal buio, dall’ombra.

Ma l’intero spazio del film, il suo set (quasi completamente incluso in un territorio magico e limitrofo) sembra continuamente passibile delle proiezioni di Giulietta. In questo senso il transfert (anche analitico) operato da Fellini sul suo personaggio, è evidente: Giulietta è come la regista (consapevole e inconsapevole insieme) delle sue iperfetazioni immaginarie, dei suoi ricordi e sogni ad occhi aperti, delle sue fantasie sugli ‘spiriti’ che la attorniano. E’ lei che predispone l’ambiente perché ci sia l’ombra dovuta per far apparire quelle spettralità, lei allestisce il set delle ombre. Ed è un set che si espande, come una arborescenza, tutt’intorno alla casa. Progressivamente: il giardino con le sue siepi e le sue vasche d’acqua (un giardino a un tempo solare e misterioso, custodito da un omone, il giardiniere, e da due filiformi camerierine, che appaiono altrettanti ‘famuli’ di un incantesimo, altrettanti ‘genius loci’).

Poi  la pineta labirintica (si vedrà come una cifra chiave del film, cifra nel tappeto, nascosta e dissimulata con cura è proprio l’immagine del labirinto) che è al contempo ‘divina foresta’ e bosco incantato, intrico arboreo infernale e luogo pagano di ninfe e divinità femminili. Quindi la villa altrettanto labirintica dove vive la vicina di casa, Susy (incarnazione della potenza di Eros, scatenamento ninfomaniaco, quasi una ierodula, una prostituta sacra), che è un vero e proprio castello gotico (un neogotico riletto in forme liberty, simile alle architetture del quartiere Coppedè o al Vittoriale dannunziano), dimora filosofale e alchemica, palazzo della Signora degli animali attorniata dalle sue ninfe, orlato da ‘guardiani della soglia’ in forma di sfingi e di chimere di pietra dal volto di Grifo.



Fellini dunque allestisce fin dalla prima sequenza il set delle ombre, e lo fa attraverso Giulietta, che si prepara (e prepara l’ambiente) all’arrivo del marito, in occasione dell’anniversario di matrimonio. Qui emerge la ricorrenza metodica dell’ombra, e del vedere dall’ombra. La camerierina regge una candela e si inoltra nell’ambiente immerso nell’oscurità, mentre la mdp avviluppa in un moto sinuoso l’immagine, sempre ripresa di spalle, di Giulietta che prova una serie di parrucche davanti a uno specchio, superficie schermica che rimbalza da varie angolazioni il suo riflesso. Sono proprio gli specchi (che tornano spesso nel film), l’insistere sul riflesso e sulla ricerca di individuazione (nel senso junghiano), di confronto con la propria ombra, che presiedono alla sequenza iniziale, cui fa perno il progressivo rivelarsi del volto di Giulietta, del suo sguardo. Sistematicamente Fellini (lo farà per tutto il film, in momenti epitomici) inquadra il volto della Masina nell’ombra, per poi farla avanzare a prendere la luce, e quindi ritrarsi ancora lasciandole solo un taglio di luce sugli occhi.

Il divaricarsi tra il buio, che alligna ricorrentemente, e le zone di luce-colore, presiede allo stile del film. Qui Fellini inventa quel proliferare di forme e di coacervi cromatici, al limite del delirio visivo, eppure esattamente disposto in campiture di luce e assorbito puntualmente nella notazione simbolica (sarà così soprattutto nell’imprinting psichedelico dei due film che seguono a questo: l’episodio di Tre passi nel delirio, Toby Dammit e Il Satyricon, per espandersi in volute barocche di forma-colore nel Casanova).

«Tra i colori di una scena esiste una vera contaminazione, uno scambio fluido, e, in proiezione, ci si rende conto che certe superfici luminose si depositano nell’oscurità, che altre hanno acquisito dei riflessi imprevisti, che c’è un debordare costante ai margini degli oggetti, da un colore dentro l’altro.»
(F. Fellini, Fare un film, p.95). 

L’allestimento di un set capace di evocare il versante nascosto delle immagini, tramite un continuo far emergere dalle ombre le zone di colore e le insorgenze delle apparizioni è ciò che all’inizio del film, implicitamente, dichiara, ciò a cui procede.  “Spegnete le luci” ordina Giulietta alle domestiche, come se volesse ancora più buio intorno a sé. Non se ne rende conto ma in realtà sta preparando l’arrivo non tanto del marito, quanto di qualcosa d’altro. Si prepara ad accogliere la prima invasione degli spiriti. Il suo corpo psichico (la casa) si sta predisponendo alla inflazione dell’inconscio. E per fare spazio alle immagini (infatti gli spiriti non sono altro che irruzioni di immagini, dunque di flusso filmico) comincia a fluttuare un altro elemento cromatico-visuale, quello del velo. Abiti di chiffon che ondeggiano, tulle che cascano dall’alto, tendaggi trasparenti: tutto un armamentario che replica il diaframma e lo schermo, comincia a invadere, a irrompere, a volteggiare nel film.

Gli ospiti irrompono con l’arrivo del marito, e paiono evocati (già loro sono presenze fantasmatiche, a cominciare dal medium Genius, mellifluo e sovreccitato, e dall’amica spiritista Valentina) dalla stessa pulsione scopica di Giulietta. Infatti è una volontà di vedere, di scoprire l’identità adulterina di Giorgio, il marito, di vederne il lato mostruoso che comporta la sua devozione erotica per lui (così come fa Psiche nella favola di Apuleio), a caratterizzare Giulietta,  contraddetta continuamente però dal chiudere gli occhi, dal non voler vedere (dal intra-vedere i proprio mostri, malevoli e benevoli) gesto che paradossalmente da accesso alla possibilità di vedere i propri fantasmi, di scorgere il volto del mostro, e innamorarsene ancor di più nel vederlo fuggire (ancora Eros e Psiche), e quindi «trasformare i mostri- nel senso di ciò che è mostrato- sotto i tratti in cui insorgono.».

Valentina porta in dono a Giulietta (come fanno gli aiutanti magici nelle fiabe di iniziazione) un oggetto fatato: una sorta di pendaglio sonoro, vagamente orientale, che emette scampanellii quando è mosso dal vento: uno ‘scaccia spiriti’. È come ogni oggetto magico, provvisto di una doppia valenza: allontana lo spirito e insieme lo convoca. È solo muovendo l’aura sonora che lo spettrale si manifesta, ma lo fa per dissolversi, proprio nel momento in cui l’ombra viene accolta e accettata dall’anima-psiche (il moto apparizione-ombra, manifestazione-dissolvimento presiede al ‘parafernalia’ spettrale del finale, quando gli spettri prendono posto nelle ombre del salotto e  quando l’immagine sdoppiata di Giulietta si libera, congiungendosi-disgiungendosi, svaniscono nel vento sul loro carrozzone di mostri circensi).

Lo svolgersi appunto della seduta spiritica (con il preludio-premonizione dell’esperimento col pendolino da radioestetista sul capo di Giulietta) è un roteare sonoro: il chiacchiericcio sovrapposto degli amici, il tuffo nel silenzio e i colpi del tavolino, i fruscii, i sussurri, i grilli dall’esterno, le voci che si distorcono. Sonorità che culmina nel compitare dei nomi spiritici (Iris, che corrisponde al rimosso erotico dell’infanzia di Giulietta, e Olaf, che cristallizza l’interdetto e la minaccia del sesso come irruzione mostruosa, come mostrarsi ostensivo della carica fisica). «Una sorta di panteismo pagano s’insinua dove tutto risuona, oggetti, personaggi che emanano suoni, corrispondenze,  dove tutto assume un senso che noi non pensiamo di assegnare.».

Durante l’evocazione spiritica tutta la casa, compreso il giardino, si carica di magnetismo e lascia irrompere, avvolte nell’ombra, frammenti improvvisi vocali-visivi: in giardino Giorgio e l’amico a braccetto nel folto degli alberi allungano all’unisono il passo della gamba avanzando come in un rito indecifrabile; la semplice e arcana sentenza di Iris: “Amore per tutti”; l’interiezione improvvisa rivolta prima all’amica e poi a Giulietta: “Troia, bagasciona!” e “Chi credi di essere poverina?  Tu non sei nessuno, non sei nessuno per nessuno non conti niente, sei una derelitta”.E mentre la voce del medium si incrina, Giulietta sviene sul tavolo, spezza la catena del tavolino spiritico. Genius sentenzia: “E’ molto dotata, si, molto, molto dotata”.

Tutto si è svolto come se un copione, una messinscena perturbante e persecutoria si fosse allestita intorno a Giulietta. Ma tutto funziona come se fosse stata la stessa Giulietta ad esserne inconsapevole artefice (le voci degli spiriti verbalizzano i suoi pensieri, i suoi sospetti sull’amante del marito, le sue insicurezze, il suo bisogno d’amore). Quando Giulietta rinviene Fellini ribalta in soggettiva la situazione con una inquadratura fissa distorta: gli amici, non più tali, sono presenze incombenti e perturbanti, e la guardano sinistramente come accoliti del diavolo (Roman Polanski si ricorderà di questa inquadratura, e di altre analoghe, quando girerà Rosemary’s baby e L’inquilino del terzo piano). Già in apertura del film dunque la casa di Giulietta  (Valentina dice entrando : “Ma è strana questa casa, sai Giulietta! Chi ci abitava prima?”) si è impregnata di ombre. Sotto i nostri occhi si è rivelata come la casa dell’ombra.

All’indomani della visita al palazzo labirintico di Susy, e della rivelazione della potenza di Eros (anche nella sua connotazione mostruosa e perturbante) Giulietta in giardino racconta alle sue piccole nipotine, come fosse una favola, il mito del labirinto. “E tra tutte queste prove c’era anche quella del labirinto che era la più terribile. Il labirinto è un grande palazzo, che quando tu ci entri non ne puoi più uscire. E più giri e più ti ci sperdi. Ma “Sette in un Colpo” che non aveva paura neanche del diavolo disse: “Ora nel labirinto ci entro io”. Ma che cosa mi date in cambio se riesco a venirne fuori? E attraversarono il bosco che era pieno di mele d’oro. Ma tante di quelle mele d’oro e così splendenti che anche di notte il bosco era pieno di luce.”

Il labirinto si presenta come una metafora cardine dell’avventura di Giulietta. Si tratta del luogo dove bisogna affrontare il mostro che vi è racchiuso, imprigionato (e che in fondo, come nota Jorge Luis Borges, in un suo racconto La casa di Asterione, non chiede altro che di essere ucciso nella sua prigione, e quindi in qualche modo liberato). Il motivo labirintico si rivela come una segreta “cifra nel tappeto” del film.



«Si tratta di percorrere questo labirinto di stupefazione, di visioni disconosciute di cui bisogna prendere coscienza- Giulietta racconta alle nipotine il mito del labirinto- di sondare le numerose implicazioni, forme e modi che lei intravede per la prima volta in un insieme di ottiche composite.».

In fondo la sindrome di Giulietta è simile a quella di Arianna, all’indomani del suo percorrere con un filo il labirinto, per condurre l’eroe, salvo esserne abbandonata. Giulietta è Arianna abbandonata, nella sua ‘isola’ (in questo caso la casa). Non a caso è il dionisiaco, l’ebbrezza erotica a liberarla, a sottrarla a quell’abbandono. Arianna/Giulietta si identifica con il suo labirinto, che è il suo corpo (ancora la casa, ma anche in non-riconoscimento delle sue pulsioni sessuali). Un corpo (in ombra) che deve reincontrare la sua anima. Ciò si manifesta, celandosi e dissimulandosi, la sera in cui Giulietta, ha un incontro rivelatore (preannunciato come in un sincronismo junghiano da Bishma, l’androgino guru indiano che Valentina le fa incontrare durante un consesso, che stranamente profetizza la moda orientale del “new age”) con il nobile spagnolo esperto di corride, che appare come un ulteriore “aiutante magico” secondo la morfologia fiabesca. Don Josè le consegna come viatico iniziatico una chiave per penetrare in se stessa ed estrarre la propria ombra, sotto forma di un cannocchiale magico che la mette in comunicazione visuale con quella che sarà l’apparizione chiave per accedere al lato rimosso del femminino erotico: Susy, e altresì descrivendo come il torero debba comportarsi nell’affrontare il toro-mostro (ancora una volta una allusione al labirinto.).

La stessa sera dell’incontro Giulietta, mentre divide il letto nuziale con un indifferente marito, si immerge nella lettura di un libro, che possiamo identificare perché se ne intravede il titolo, si tratta di Il robot e il minotauro, un romanzo di fantascienza di Roberto Vacca, edito in quel 1963,  modellato proprio sul mito del labirinto. L’insistenza anche qui sulla figurazione dell’ombra enuclea che si avvicina per Giulietta sempre più il momento di fronteggiarla. Fellini inquadra la silhouette dell’ombra di lei dietro la tenda, poi la fa uscire e guardare verso quella luce lunare, che è la ‘faccia nascosta’ della femminilità. È proprio Don Josè, il nobile spagnolo che sa toreare con la propria parte oscura a suggellare con la sua ombra proiettata sul muro della casa, questa scena: di spalle guarda verso la finestra illuminata di Giulietta, e lei spegne la luce, resta solo la fessura della luce lunare sui suoi occhi. Significativamente è svegliata da una telefonata del marito con l’amante che si conclude con questa frase confidenzialmente erotica da parte di lui alla misteriosa Gabriella: “Buonanotte mostro!”.

L’assedio di mostri, spiriti e fantasmi mentre si dispone come una estroflessione anamnestica di una discesa nelle latebre dei propri traumi infantili, espone, a un livello che si sgancia dalla sola lettura psicoanalitica, un discorso molto libero che Fellini intrattiene con le immagini, con il loro generarsi. Se infatti Giulietta legge tutto ciò che la circonda come un segno ( sia dell’inconscio che preme sia del processo di rimozione, anzitutto del tradimento del marito, cui fa resistenza, perché ciò costituisce anche rimozione dell’eros), ciò che fa segno nel film è un risalire al gioco generativo delle immagini che si imbrigliano fra loro, a tre livelli: il quotidiano, il fantasmatico e l’archetipico. Ciò che infatti Fellini opera sia in questo film che in 8 e ½ è uno sganciamento definitivo, eppure implicito, dal recit, e in particolare dal narrato neorealista. L’atteggiamento è quello di guardare in trasparenza la realtà, per scoprirvi un livello altro, uno stato alterato di coscienza del reale. Certo questo survoltaggio del reale ha a che fare con una sorta di ‘spiritualizzazione’: «fare apparire questa spiritualizzazione sotto la sua forma primordiale, sotto le sue apparenze originarie di immagini, spesso illeggibili, che si compongono a nostra insaputa…».

Il livello dell’apparizione scontrandosi con la sua ombra permette a Fellini di accedere a un lavoro doppio: da un lato sulla luce-cromatismo, dall’altro sulla morfologia del mostruoso (ancora nel segno del mostrarsi), complicando i livelli di decifrabilità dell’immagine. «In questa poetica c’è tutto in regime del mostruoso e del folle che si decritta e che procede lentamente a una disorganizzazione dei corpi, li costituisce tutti- nel senso artaudiano dell’espressione- in corpi senza organi. Mostruosità e follia che diventano paradossalmente una costante della creazione felliniana e approdano, intanto, al grande scenario in cui si riflette la malattia della rappresentazione che sostiene il discorso lacerato di Toby Dammit.».

L’illeggibile, l’invisibile, l’indecifrabile allignano nell’ombra, ma anche in pieno sole, come ‘demoni meridiani’ (accade nel sogno sulla spiaggia, ma anche nella piena luce del giardino, soprattutto nel finale). Per di più è sempre un diaframma, uno schermo (che sia finestra, cannocchiale, velo ) a restituire l’altro lato del reale (come l’ altra casa di quel doppio erotico del femminile di Giulietta che è Susy/Iris. Si assiste a un continuo inoltrarsi in un labirinto-set, a un attraversamento delle immagini, un percorso di ostensione. Ma tutto per accedere a una nuova percezione del mondo (cui approda Giulietta liberata) : «una nuova chiarezza -orale e oracolare, forse oracolare-di esprimere, accompagnata da forze diventate parole amiche, la sua accettazione a uscire dal tessuto avviluppante della sua interiorità.». La reale consistenza, fisica e provocante, di Susy che fa corpo con il decor ipersessuato del suo ambiente è continuamente riferita a uno stato quasi psichedelico, alterato, erotizzato di quella sua realtà (che Giulietta a un certo punto decide di abitare, di penetrare, salvo a trovarsi frammentata e ancor più scissa dentro e fuori le immagini che la permeano, come una Alice che attraversa lo specchio).

Le apparizioni, accettando il loro lato d’ombra, è come se si addensassero, assumessero carne filmica, ma perdendo la loro organicità. Quando Susy appare sulla spiaggia, bardata di veli sotto il suo baldacchino rosa, il vestito giallo, il grande cappello da maga orientale, la strana corte di personaggi fiabeschi, il livello fantasmatico e quello realistico del film coincidono sottraendosi a un organismo coerente. Si tratta a questo punto di surdimensionare il reale ( costruendolo come un set da abitare, che va a imprimersi e a sovrapporsi alla realtà come una diffrazione, un inganno ottico). Assistiamo a qualcosa che nello stile felliniano diventa decisivo (a partire dal successivo Satyricon): l’accesso a una depsicologizzazione dei corpi-personaggi, a una impersonalità percettiva che fa apparire in trasparenza il mostruoso e il folle di ciò che ci circonda (perturbandone il familiare, e qui in Fellini funziona forse, nonostante le sue dichiarazioni, più Freud che Jung). Non c’è più differenza allora tra notte e giorno, ombra o apparizione: tutto avviene come un trasformarsi interno dell’immagine. Allora l’immagine si mostra, viene in luce, proprio mediante l’ombra.

Addenda su Fellini-Satyricon. Il motivo figurale del labirinto torna in una sequenza-chiave di Fellini-Satyricon. Encolpio deve incontrare il proprio mostro-minotauro e ingaggiare con lui un corpo a corpo in un ambiente che richiama il disegno rupestre e megalitico di un labirinto arcaico. La lotta in soggettiva lungo le pareti labirintiche coperte di pittogrammi è una lotta con il proprio doppio-ombra. L’atleta che indossa la maschera taurina, quando Encolpio sta per soccombere e gli chiede “Chi sei?”, è inquadrato in controluce su un sole abbacinante che entra in macchina. L’ora di luce meridiana, demonica e redentrice insieme, ora di panico e di risveglio, rivela , sollevando la maschera animale un volto giovane e solare, sorridente. Il Dio Riso ha risolto apotropaicamente l’angoscia della lotta in rinascita-identificazione. “Tu mi conosci” dice Encolpio e di rimando il giovane minotauro: “Per mio conto oggi è nata una nuova amicizia” e si abbracciano inondati di luce. Il mostro-ombra si è sciolto e si è riconosciuto in un corpo che ora ha accesso all’itinerario iniziatico di trasformazione sessuale, attraverso tre tappe: il coito fallito con Arianna, il rituale tantrico di magia sessuale nel Giardino delle Delizie, il recupero magico del fuoco sessuale attinto nella vulva della Grande Madre che si rivela una ipostasi della Maga Enotea.   

Tags: