Luigi Abiusi

altDentro il magma della condizione postmoderna, in una teoria delle cose che rinuncia alla teoria contemplando le cose che accadono, che ci accadono, ci fanno accadere, nudamente, tanto più in questo rigoglio primaverile, ritorno di sole, su selciati, folle, sui muri, gli schermi in cui si caglia il passato (mai così presente), le fantasticherie secrete dagli intrichi di sterpi dentro un campo apparito, dallo sbottare di tuberi, che esalano e si cagliano ancora vischiosi, verdi di schiuma all’aria aperta; schizofrenia d’io che poi è deposizione dell’io, della coscienza, e gioiosa, terribile balia degli eventi, carneo, erotico brulicame di epidermidi, isole di senso; il palinsesto di un «Uzak» in quanto discontinuità gioiosa di sensi, concetti in storie, in fieri, va da Dreyer a Noé e passa per un grumo di visioni “polacche”.


Skolimowski, Kieślowski, Zulawski: il primo, ospite con il suo capolavoro 11 Minutes a “Registi fuori dagli sche(r)mi”, arrivato alla sua quinta edizione; l’ultimo, oggetto di una bellissima retrospettiva al Festival del Cinema Europeo di Lecce (dove c’era tra gli altri anche Fliegauf in concorso), a indicare che proprio quando Cronenberg avviava la sua riflessione corporale, virale (divenendo celebre, addirittura eponimo), Zulawski in modo più appartato mostrava il pullulare e lo sterminio dei pidocchi nella Terza parte della notte, e poi le possessioni, le ossessioni più che di soggetti, di metaplasmi in balia dei sogni, anzi degli incubi fatti dalle cose, dalla materia, i flutti o non flutti, gli spurghi come ennesima declinazione di un erotismo, cioè di un essere, un essere fatto problematico.

Da lì fino a Cosmos, Cosmopolis, Maps to the Stars, lo stesso multischermico 11 Minutes, fino all’allucinazione protratta di Divorati, il discorso è ancora su un contemporaneo metamoderno (di schermi, display, obiettivi di com-penetrazione, dissipazione anche del coito ecc.) che si scioglie, si vaporizza, nel migliore dei casi, nell’ottuso sogno di una cosa, in una terza o quarta parte della notte (in quattro dimensioni). La stessa di Pedro Costa (anche lui a “Registi fuori dagli schermi” con Cavalo Dinheiro), tutto chiuso in una notte di bisbigli, soliloqui spettrali, scarniti, che non fanno che mostrare la loro natura filmica, la loro postura in favore di camera, della messa in scena, nell’unico spazio etico disponibile, quello estetico.

Quello isolato da Kieslowski già dal tempo di Lodz, perché cos’è la visione amorosa di Tomek dentro le lenti del cannocchiale e nello schermo della finestra, in chiusura di Breve film sull’amore (splendida, protratta variazione sul Decalogo 6, di cui sovverte il materialismo di una semplice polluzione, in un frammento di vita galleggiante nel mezzo della notte), o la vita di Veronica, in un suo doppio (sogno), che potrebbe essere anche plurimo, senza spazio e tempo; oppure la congiuntura di personaggi salvati dalle acque alla fine di Film Rosso, metaplasmi appunto che si riconoscono nel loro stesso oscuro plasma, se non l’unica possibilità di co-esistenza e coalescenza dei soggetti pensati e creati dalle opere e le cose?